David Harvey: “Seventeen Contradictions and the End of Capitalism”

David Harvey: “Seventeen Contradictions and the End of Capitalism”

Nel corso degli ultimi quarant’anni c’è stato un doppio movimento:  da una parte, una tendenza generale ad aumentare il livello di ricchezza e di redditi pro capite in tutti gli Stati (a parte quelli, come la Grecia, che sono stati colpiti duramente dalla recente crisi) e dall’ altra drammatici aumenti della disparità dei redditi e della ricchezza tra individui e gruppi sociali in quasi ogni paese del mondo. Pochissimi stati o regioni si sono scostati da questa tendenza e per la maggior parte essi sono ai margini dell’economia mondiale (Ad esempio, un paese come il Bhutan o, per un po’, lo stato del Kerala in India). Solo in America Latina abbiamo visto alcune riduzioni di disuguaglianza sociale come conseguenza delle politiche statali. Le differenze di ricchezza monetaria sono molto più difficili da gestire rispetto ai redditi. Ma in alcuni aspetti la ricchezza monetaria è più importante, dal momento che ha un’influenza a lungo termine, piuttosto che un rapporto volatile con il potere politico.
La misura monetaria della ricchezza è difficile perché la valutazione di alcuni beni – dalle collezioni d’arte ai gioielli costosi e alle proprietà – è spesso una questione soggettiva e comunque fluttua ampiamente, come nel caso del valore di mercato dei titoli e delle azioni.
Nella maggior parte dei paesi la distribuzione della ricchezza monetaria sembra ancora più irregolare della distribuzione dei redditi.

La libera circolazione delle persone: follia, necessità o diritto?

La libera circolazione delle persone: follia, necessità o diritto?

05-10-2017

di Gianni Belletti

Ritengo che sia folle far gestire da privati la permanenza nel nostro territorio dei richiedenti asilo.

Prima di argomentare la mia posizione vorrei citare quanto Roger Cohen ha scritto sul NYT un paio di anni fa, circa la “minaccia” immigrazioni negli USA : “Grandi bugie generano grandi paure che producono grandi bramosie per grandi uomini forti” (1), come premessa e come lente per riflettere sul seguito.

Nel 2007, il Commissario Europeo per la Giustizia dichiarò :”La sicurezza (dei confini della Unione Europea) non è più un monopolio del settore pubblico, è parte del bene comune, e la responsabilità per la sua realizzazione deve essere condivisa tra settore pubblico e privato”(2)

Perchè questo personaggio se ne esce con battute simili ?

Secondo me è interessante riflettere sugli studi che Saskia Sassen ha condotto sulla società degli Stati Uniti, dopo l’avvio del processo delle privatizzazioni delle carceri, avviato circa 40 anni fa.

Risultano dati agghiaccianti: “ad oggi (2014), 1 americano su 100 è incarcerato, o in una prigione statale o in una prigione federale o detenuto in una cella locale in attesa di giudizio. Se a questi aggiungiamo coloro che sono sottoposti ad altre forme di privazione della libertà (arresti domiciliari e liberà vigilata), il totale arriva a 7 milioni di americani, 1 ogni 31.. E se contiamo tutti coloro che hanno avuto problemi con la giustizia, arriviamo a 65 milioni di persone, cioè uno su 4….se avessimo bisogno di una prova per testimoniare tale stato eccezionale, il proliferare di prigioni private ne sarebbe naturalmente la prova”(3)

Il “Transnational Institute “(4) ha valutato il mercato per la sicurezza dei confini nel 2015 in 15 miliardi di euro, con proiezioni di 29 miliardi per il 2022.

Per renderci conto della “dimensione” di questi numeri, è interessante paragonarli con le stime che l’Interpol e l’Europol hanno segnalato, sempre per il 2015, circa il turnover generato dal traffico dei migranti: siamo tra i 5 ed i 6 miliardi di euro.(5)

Vuol dire che il mercato del controllo delle frontiere è almeno tre volte più redditizio del mercato dei trafficanti di uomini.

Ora è possibile che questo alto funzionario europeo non sapesse di cosa stava parlando ?

Tra l’altro è possibile che non conoscesse il lavoro di Elinor Ostrom sui beni comuni ?(6)

Più che parlare di sicurezza come bene comune, bisognerebbe considerare i migranti che oggi arrivano nel nostro territorio come “bene pubblico”, se pensiamo che l’anno scorso il 40% degli arrivi in Italia sono stati bambini. Se fossimo intelligenti investiremmo su di loro, prima di tutto sulla loro istruzione.

Di fatto in Europa si è proceduto a trasferire “porzioni” di gestione della sicurezza dei confini e delle persone richiedenti asilo, al settore privato : la Gran Bretagna ha fatto la parte del leone; la Svezia, oggi, è l’unico paese che ha ripubblicizzato la sicurezza dei confini e la gestione dei richiedenti asilo.

In Italia, lo stato mantiene la sorveglianza, l’identificazione e il mantenimento dell’ordine, ma ha delegato la sicurezza, le pulizie, il catering, il mantenimento delle strutture, l’attenzione medica e l’aiuto legale.

Fino agli anni 80 era la Croce Rossa che si incaricava dei richiedenti asilo politico; poi, di fronte all’aumento delle richieste e per la mancanza di risorse umane, ha favorito il coinvolgimento delle Cooperative Sociali.

Negli ultimi 15 anni, le Cooperative Sociali sono via via soppiantate da multinazionali già presenti nel settore della sicurezza nei paesi anglosassoni (4xS, Tascor, Mitie, Serco, Geo) (7).

Queste multinazionali stanno progressivamente estromettendo da questo “mercato” le cooperative sociali perché arrivano ad offrire il 20-30% in meno nei bandi di concorso, che vengono assegnati in base all’offerta più bassa (un caso per tutti quello del CIE di Roma che ha estromesso la cooperativa sociale “Auxilium” che richiedeva 41 € a persona al giorno, contro i 28,80 € della società legata alla multinazionale GEPSA , filiale di SUEZ).

Queste multinazionali possono permettersi economie di scala impensabili ad altre realtà economiche, quindi possono offrire prezzi più bassi e strappare ad altri il “mercato”.

Lunaria stima che tra il 2005 e il 2011 lo Stato Italiano ha speso 1 miliardo di dollari nel sistema della detenzione dei migranti (8).

Ma come siamo arrivati a questa situazione al limite del paradosso ?

Credo che il motivo principale stia nel fatto che è assurdo consentire che praticamente la sola possibilità che ha un migrante di entrare nell’Unione europea sia facendo richiesta di asilo politico ( a meno che non faccia parte della élite economica del suo paese naturalmente).

Il sociologo Carlo Melegari, tra gli altri in Italia ed in Europa, ritiene giustamente che bisognerebbe percorrere strade differenti, potenziando le nostre rappresentanze diplomatiche nei paesi del “Sud” del mondo, dando l’opportunità di ottenere visti provvisori di qualche mesi o qualche anno, a condizione di avere dati anagrafici certi, luogo di destinazione e persona che si incarica dell’accoglienza, a condizione di avere una cauzione che viene persa nel caso non si rispettino gli accordi.

Si potrebbe quindi dare al migrante la possibilità di viaggiare con i mezzi ordinari, con visto legale, si potrebbe dare la possibilità di lavorare in regola; avremmo nel territorio persone che non sarebbero a carico dello Stato. (9)

Non dimentichiamo che il migrante non è né un potenziale delinquente, né un potenziale deficiente. (Viktor Orban ha dichiarato “tutti i terroristi sono migranti” (10)

Poi, certo, rimarrebbero i richiedenti asilo per quegli stati dove non sussistono le condizioni per avere delle rappresentanze diplomatiche o dove regimi dittatoriali, carestie, guerre impedirebbero una circolazione nella legalità. In questi mesi l’Italia sta organizzando la gestione dei migranti con un paese, quale la Libia, che non ha mai firmato la Convenzione di Ginevra(11).

Proposte simili purtroppo spaventano prima di tutto i partiti politici, complici i mezzi di informazione che presentano gli attuali flussi migratori come se stessimo assistendo ad un’invasione.

Eppure i numeri dicono altro: nel 2015, nel mondo, ci sono stati 244 milioni di migranti (il 3% della popolazione mondiale). Alle porte dell’Unione Europea, nel 2015, si sono presentate 1 milione di persone, pari allo 0,2% della sua popolazione di 510 milioni.

Nel 2016 in tutta l’Unione Europea si sono registrate 204.300 domande di asilo politico. (13)

In Italia, nei primi 6 mesi del 2016 ci sono stati 70.222 arrivi sulle nostre coste, contro gli 83.360 dei primi 6 mesi del 2017. (13)

Se poi guardiamo fuori Europa, ci accorgiamo che , in fondo, non facciamo proprio tutto questi sforzi.

Saskia Sassen ha fatto un calcolo interessante: nel 2012, i profughi accolti dal Pakistan per un dollaro Usa di Pil/per capita sono stati 605;per la Repubblica Democratica del Congo 399, per il Kenia 321, per la Germania, che è il più ricco degli stati europei, sono stati 15. (14)

Allora perché questa risposta “securitaria” alle immigrazioni, costata 5000 morti nel mediterraneo solo nel 2016 ?

Perchè abbiamo reso “normale” la detenzione dei migranti ?

Personalmente la risposta che credo di poter dare è la seguente: la libera circolazione delle persone non è funzionale alla libera circolazione delle merci (e dei servizi) e del capitale .

Un esempio, per quanto semplice e banale , può essere di aiuto. Un investitore per la produzione di una T-shirt non investe in California, dove la mano d’opera costa 20 dollari l’ora, ma in Bangladesh, dove costa 0,50 dollari l’ora. Investe in Bangladesh, per vendere in California, cioè sposta liberamente capitale e merci. Se si potesse spostare liberamente anche quell’operaio pagato 0,50, il gioco non si potrebbe più fare.

Oggi se osiamo opporci alla libera circolazione delle merci e del capitale, saremmo tacciati di primitivi; eppure Keynes, a Bretton Woods è riuscito a garantire 30 anni (“gloriosi”) di stabilità e crescita economica a tutto l’occidente, limitando la libertà di circolazione delle merci e del capitale (l’altro suo intento, con l’istituzione di una unità di conto internazionale, il “bancor”, per impedire agli stati di andare o in surplus o in deficit commerciale e quindi finanziario, non è passato per il peso politico degli Usa).

“Aiutiamoli a casa loro” vuole dire questo : permettiamo a tutti i paesi di tutelare le proprie manifatture, imponendo dazi a quanto viene dall’estero, e freniamo l’impeto di “investire” che viene sempre più forzato dalla finanza internazionale, alla caccia di profitti sempre maggiori, ignari della salvaguardia ambientale..

“Aiutiamoli a casa loro” vuole dire per noi pagare più care tutte le merci, comprese le materie prime.

Il rischio reale, credo, sia arrivare ad accettare che esistono due tipi di cittadini: alcuni hanno più diritti di altri. Oggi l’italiano più di un “marocchino” nell’avere assegnato un alloggio popolare, domani qualcun altro più di noi nell’ottenere un diritto da parte della collettività.

La libera circolazione delle persone è un diritto. Oggi viviamo in un mondo globalizzato in un regime di apartheid, in cui un quinto della popolazione mondiale, fra cui noi, possiamo praticamente andare dove vogliamo, quando vogliamo, mentre gli altri 4/5 non lo possono fare.

Se fossimo più attenti, ci accorgeremo però che la libera circolazione delle persone è anche una necessità. A questo proposito vorrei concludere citando Ivan Krastev : “La globalizzazione ha trasformato il mondo in un villaggio, ma questo villaggio vive sotto una dittatura, la dittatura delle comparazioni mondiali. Le persone non confrontano più la propria vita con quelle dei vicini, ma con quella degli abitanti più ricchi del pianeta.

In questo nostro mondo interconnesso, l’immigrazione è la nuova rivoluzione: non una rivoluzione novecentesca delle masse, ma una rivoluzione verso l’esterno, compiuta da individui e famiglie, e ispirata non dalle immagini del futuro dipinte dagli ideologi ma dalle foto di Google Maps che ritraggono la vita dall’altro lato della frontiera.

Questa nuova rivoluzione non ha bisogno di movimenti o di leader politici per avere successo. Così non dobbiamo sorprenderci se per molti sfortunati del pianeta attraversare i confini europei è molto più attraente di ogni utopia. Per un numero crescente di persone, l’idea di cambiamento significa cambiare il paese in cui si vive, non il governo sotto cui si vive” (15)

Gianni Belletti, Comunità Emmaus Ferrara

1)”Big lies produce big fears that produce big yearnings for big strongmen” . Roger Cohen , New York Times op-ed columnist, 31.12.2015

2) Rodier C., “Xénophobie business. A quoi servent les contro^les migratoires ? Paris La Découverte, 2012, p.34

3) Saskia Sassen : “Expulsions”, 2014, pos. 831

(4) istituto di ricerca per la difesa della democrazia, della giustizia e delloo sviluppo sostenibile,con base in Amsterdam: www.tni.org

(5) Joint Europol-Interpol Report, Migrant Smuggling Networks, May 2016, p.2

(6) “Governing the Commons” sui beni comuni, pubblici e collettivi, grazie al quale è stata insignita del Premio Nobel per l’economia , prima donna, tra l’altro a ricevere tale titolo.

(7) si veda Lydia Arbogast “Migrant Detention in the European Union: a Thriving Business”, Migreurop 2016

(8) Lunaria, Costi Disumani, La Spesa Pubblica per il contrasto dell’immigrazione irregolare, 2013

(9) si veda www.cestim.it

(10) Z. Bauman , “Strangers at Our Door”, 2016 pos 417

(11) Convenzione di Ginevra 1951, Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici (1966)

(12) www.migreurop.org

(13) Il Manifesto, 26.07.2017

(14) Saskia Sassen: “Expulsions”, 2014, pos 769

(15) After Europe, University of Pennsylvania Press, 2017.

David Harvey:”Seventeen Contradictions and the End of Capitalism”

David Harvey:”Seventeen Contradictions and the End of Capitalism”

La logica microeconomica vorrebbe che i risparmi sull’orario di lavoro venissero tradotti in risparmi sui salari per le aziende in cui tali economie siano realizzate: producendo a costi inferiori queste società saranno più “competitive” e potranno (a determinate condizioni) Vendere di più. Ma dal punto di vista macroeconomico, un’economia che, usando sempre meno lavoro, distribuisce sempre meno salari, inesorabilmente scende il pendio scivoloso della disoccupazione e della povertizzazione. Per restringere la sua scivolata, il potere d’acquisto delle famiglie deve cessare di dipendere dal volume di lavoro che l’economia consuma. Sebbene esegua un numero decrescente di ore di lavoro, la popolazione deve guadagnare il necessario per acquistare un volume crescente di beni prodotti: la riduzione dell’orario di lavoro non deve comportare una riduzione del potere d’acquisto.

Ndongo Samba Sylla: “The Fair Trade Scandal”

Ndongo Samba Sylla: “The Fair Trade Scandal”

Per gli autori come Fridell (2007), questa è una delle principali contraddizioni del commercio equo e solidale: i suoi protagonisti cercano di combattere contro il libero mercato mentre rimangono al suo interno – per parafrasare Michael Barratt Brown (1993) – e accettando la struttura capitalistica delle relazioni sociali di produzione. Descriverebbero il fenomeno di Sfruttamento come una distorsione portata sul mercato derivante dall’atteggiamento di “gruppi senza scrupoli”.
Secondo lui, questa visione riduce l’importanza degli “imperativi strutturali” del capitalismo: concorrenza, accumulazione del capitale, innovazione e massimizzazione del profitto. Avrebbe anche la tendenza a considerare le relazioni sociali di produzione – e le loro lotte connesse – non come punto di partenza dello sviluppo capitalista, ma come una delle sue conseguenze. Come ha scritto Fridell (2007: 14-15), il movimento Fair Trade:

Si basa sulla convinzione che la disuguaglianza e l’ingiustizia globali possano essere combattute con le riforme radicali al commercio, a livello sia delle singole imprese che del regime internazionale del commercio, senza una trasformazione fondamentale del potere politico, delle relazioni di classe e della proprietà immobiliare negli Stati che costituiscono il sistema mondiale.

Dani Rodrik: “One Economics, Many Recipes”

Dani Rodrik: “One Economics, Many Recipes”

Paradossi dell’ortodossia neoliberale

Nell’ambito del programma di ricerca neoclassica, la relazione tra liberalizzazione commerciale e crescita economica è quasi inequivocabile, ma teoricamente ambigua. Si tratta di un problema che può quindi essere “risolto” solo ricorrendo al tribunale dei “fatti”. Come i seguenti paradossi rivelano, una delle principali lezioni insegnate dalla storia recente è che il liberalismo nel campo della politica economica non è né necessario né sufficiente per una riuscita integrazione nella globalizzazione.
I paesi in via di sviluppo percepiti come un successo nell’integrazione nella globalizzazione – per esempio, la Cina, l’India e il Vietnam – sono paradossalmente quelli che avevano le barriere più rigide agli inizi degli anni ’90.
La Cina e il Vietnam non erano nemmeno membri dell’OMC all’epoca. Entrarono nell’organizzazione rispettivamente nel 2001 e nel 2007. Il secondo paradosso, per un Paese come la Cina, è che la liberalizzazione del commercio è iniziata circa 15 anni dopo l’inizio di una crescita rapida e sostenuta. Il terzo paradosso è che i paesi che hanno fatto gli sforzi più significativi per la liberalizzazione del commercio in linea con l’ortodossia neoliberale, vale a dire quelli dell’America latina, hanno registrato scarse prestazioni economiche, per non parlare di un peggioramento delle disuguaglianze. Il quarto paradosso è che la maggior parte dei paesi in via di sviluppo in Africa, Asia e America Latina ha espresso le migliori prestazioni tra il 1950 e il 1973. Ironia della sorte, questo era un periodo in cui i paesi in via di sviluppo adottavano strategie di industrializzazione basate sulla sostituzione dell’importazione. Ciò era completamente in contrasto con l’ortodossia neoliberale, per cui esse furono messe in discussione negli anni Ottanta. Il quinto paradosso è che il periodo 1950-73, che rappresenta l'”età dell’oro” del keynesianismo, è stato il periodo più prospero della storia economica mondiale, con una crescita economica mondiale (PIL/pro capite) di circa il 3 per cento all’anno. Tale livello non era mai stato raggiunto prima. Da allora non è stato ancora raggiunto. Il sesto paradosso è che, fin dalla svolta neoliberale, non ci sono mai state così numerosi crisi finanziari e bancarie.

Sorgente: Rodrik (2007a, 2007b).

John Smith: “Imperialism in the Twenty-First Century”

John Smith: “Imperialism in the Twenty-First Century”

Gli enormi margini di profitto sui costi di produzione appaiono invece come “valore aggiunto” nel Regno Unito e in altri paesi in cui questi beni sono consumati, con il risultato perverso che ogni capo di abbigliamento aumenta il PIL del paese in cui si vende di gran lunga di più del paese in cui viene prodotto. Solo un economista potrebbe pensare che non c’è nulla di sbagliato in questo!
Tutti i dati e l’esperienza, ad eccezione dei dati economici, indicano un significativo contributo agli utili di Primark, Walmart, e altre aziende occidentali dagli operai che lavorano a lungo, duramente, e a bassi salari per produrre i loro prodotti. Eppure il commercio, il PIL, e i dati del flusso finanziario non mostrano alcuna traccia di tale contributo; invece, la maggior parte del valore realizzato dalla vendita di questi prodotti e tutti i profitti saccheggiati dai giganti della vendita al dettaglio sembrano originari del paese in cui essi sono consumati.

[…]

In “The China Price”, Tony Norfield racconta la storia di una T-shirt prodotta in Bangladesh e venduta in Germania per 4,95 euro da parte del rivenditore svedese Hennes & Mauritz (H & M). H & M paga il produttore del Bangladesh 1,35 € per ogni t-shirt, il 28 per cento del prezzo di vendita finale, 40 centesimi, copre il costo di 400 g di cotone importato dagli Stati Uniti; Il trasporto ad Amburgo aggiunge altri 6 centesimi al prezzo della camicia. Così 0,95 € del prezzo finale di vendita rimangono in Bangladesh, per essere condivisi tra il proprietario della fabbrica, i lavoratori, i fornitori di ingressi e servizi e il governo del Bangladesh, espandendo il PIL del Bangladesh in misura di questo importo. I restanti 3,54 € alimentano il PIL della Germania, paese in cui si consuma la T-shirt, e sono cosi’ suddivisi: € 2,05 per i costi ed i profitti dei trasportatori tedeschi, dei grossisti, dei dettaglianti, dei pubblicitari, ecc. (alcuni saranno versati allo stato attraverso varie tasse); H & M fa 60 centesimi di profitto per la camicia; lo stato tedesco cattura 79 centesimi del prezzo di vendita attraverso l’IVA, al 19 per cento.

Dambisa Moyo: “Dead Aid”

Dambisa Moyo: “Dead Aid”

L’esperienza dei Paesi più lontani come Singapore, Mauritius, Cina e Costa Rica suggerisce che, laddove esiste un ambiente positivo, gli IDE scorreranno e contribuiranno a una crescita sostenuta. Ma chi vorrebbe investire i propri soldi in stati dominati dagli aiuti, dove è facile per chiunque requisire la proprietà, sia con la forza che attraverso la corruzione?
Proprio come non funziona gettare denaro in aiuti nei paesi poveri, cosi’ semplicemente aumentare l’investimento non è la chiave per la crescita economica. Solo quando il capitale viene destinato ai suoi usi più produttivi, un’economia ne beneficerà e questo può accadere solo quando i governi sono dotati di incentivi per rispettare e sostenere quelle industrie che possono contribuire ad un potenziale a lungo termine del paese. La cerimonia del taglio del nastro rosso per lanciare la più recente strada, ponte o porto è facile. La parte difficile è assicurare la longevità delle infrastrutture, che può essere raggiunta soltanto se l’economia sta crescendo (i pedaggi sulle strade a pedaggio hanno senso solo se le persone possono pagarli e possono farlo solo se l’economia è in movimento).
Poiché non tutti i paesi africani sono uguali – alcuni hanno meno risorse naturali rispetto ad altri, o meno opportunità di investimento – gli importi per gli IDE variano da confine a confine. Per questi paesi, meno favoriti dalla natura, ci sarebbe da seguire un altro percorso per finanziare lo sviluppo.

Ndongo Samba Sylla: “The Fair Trade Scandal”

Ndongo Samba Sylla: “The Fair Trade Scandal”

Negli anni ’80, l’ambientalista Norman Myers (1981) ha coniato la frase
“hamburger connection” per mostrare il legame tra l ‘esportazione di manzo dai
paesi dell’America centrale negli Stati Uniti e la deforestazione. Il Brasile è senza dubbio l’esempio più convincente di questo fenomeno.
Tra il 1990 e il 2000, le aree disboscate totali dell’amazzonia brasiliana sono cresciute da 41,5 milioni di ettari a 58,7 milioni di ettari; Queste superfici perdute sono quasi due volte più grandi del Portogallo. La deforestazione in corso è la conseguenza della crescente richiesta internazionale di carni bovine dal Brasile.
La svalutazione della valuta brasiliana, il fatto che il paese è stato risparmiato
da alcune malattie bovine (per esempio la malattia della mucca pazza) e il fatto che esso offra garanzie sanitarie e fitosanitarie sono i fattori principali della crescita dell’esportazione di carne dal Brasile. Tra il 1990 e il 2002, il bestiame bovino è più che raddoppiato in Brasile, con una crescita da 26 a 57 milioni di capi. A sua volta, questo ha aumentato la perdita di terreni coltivabili per lasciare il posto al pascolo. L’aumento delle dimensioni dei pascoli è una delle cause della deforestazione – un fenomeno che accentua il cambiamento climatico: l’80 per cento dei nuovi bovini pascolano nella foresta amazzonica
(Demaze, 2008; Kaimowitz et al., 2004).

Dambisa Moyo: “Dead Aid”

Dambisa Moyo: “Dead Aid”

I difensori dell’Africa si sono allontanati da una riforma significativa ed hanno scelto invece il percorso di aiuto ingegnosamente più facile. Il tipico periodo di recupero dopo una crisi dei mercati emergenti è passato da uno a due anni. Tuttavia, bloccando i titoli bond del Ghana e del Gabon del 2007, l’ultima volta che una nazione africana ha battuto i mercati internazionali del debito e’ stato a metà degli anni ’90 (Congo-Brazzaville nel 1994 con un’emissione obbligazionaria di dieci anni di 600 milioni di dollari USA). Dei 35 paesi stranieri africani che avevano emesso obbligazioni nei mercati dei capitali internazionali in quel periodo, quasi tutti sono stati inadempienti; E nei successivi trent’anni nessuno di loro è tornato.
Essi hanno una scelta ovviamente, ma i paesi africani non si sono presentati sui mercati in gran parte perché non hanno voluto. La buona notizia è che ci sono segni di cambiamento. Un rapporto intitolato “L’emissione del debito delle istituzioni finanziarie è probabile che aumenti nell’Africa sub-sahariana”, pubblicato il 30 aprile 2008 su Ratings Direct, Standard & Poor’s, ha commentato le prospettive per aumentare l’emissione di obbligazioni dall’Africa. L’agenzia internazionale di rating del credito ha osservato che le banche del Ghana, del Kenia e dei sindacati monetari regionali dell’Unione economica e monetaria dell’Africa occidentale e della Comunità economica e monetaria dell’Africa centrale sarebbero i candidati più probabili nei prossimi due o tre anni per sollevare debito a lungo termine.

La tendenza generale è chiaramente incoraggiante. Anche se c’è ancora un modo di andare nei rating governi e aziende in tutta l’Africa, negli ultimi diciotto mesi Standard & Poor’s ha assegnato rating a lungo termine a quattro banche in Nigeria, due dei quali emessi successivamente nei mercati finanziari internazionali.
È questa strada che l’Africa ha disperatamente bisogno di prendere. La prospettiva di nuovi operatori finanziari del settore bancario e di altri settori privati africani è favorevole a una maggiore trasparenza e maturità finanziaria, che permetterà loro di ottenere un migliore accesso ai mercati dei capitali nazionali e internazionali. Ma, soprattutto, l’acquisizione di rating e di esperienza nei mercati dei capitali è il passaporto per la partecipazione dell’Africa alla più ampia architettura mondiale.

Certamente c’è un imperativo istituzionale – è sempre nell’interesse delle banche internazionali prestare e degli investitori investire – ma sedotti come Ulisse dalle sirene dalla chiamata dell’aiuto, i governi africani arenano le loro navi sulle rocce della scomparsa dello sviluppo. Finora la discussione si è concentrata sui mercati internazionali del debito, ma i paesi africani dovrebbero sviluppare anche i propri mercati obbligazionari nazionali.
I mercati obbligazionari nazionali sono un presupposto per il mercato azionario di un paese e un altro mezzo per finanziare la propria crescita per il settore aziendale della nazione. Inoltre, l’emissione dei debiti nei mercati nazionali è spesso più conveniente di quella in valuta estera (ciò potrebbe spiegare l’andamento evolutivo dei paesi emergenti più sviluppati che hanno visto un passaggio dal debito prevalentemente internazionale fino ad oggi dove circa il 70 per cento del debito è in moneta locale).

L’istituzione e lo sviluppo di mercati obbligazionari locali presentano vantaggi evidenti per le economie più povere. Mercati obbligazionari locali più liquidi possono abbassare il costo del mutuatario e ridurre i disordini di finanziamento e di investimento e i rischi che creano. Sostengono lo sviluppo e migliorano la resistenza di un paese agli shock, migliorando così la sua stabilità finanziaria.
Eppure, finora, lo sviluppo dei mercati dei capitali del debito locale in molti paesi più poveri è stato ostacolato dall’assenza di obbligazioni nazionali a lungo termine liquide (cioè facilmente acquistabili o vendute) e infrastrutture regolamentari e finanziarie relativamente deboli.
Inoltre, la percentuale in cui gli investitori internazionali sono in grado di possedere debiti a livello locale è stata scarsa; gli investitori istituzionali stranieri (come i fondi pensione e le compagnie di assicurazione) detengono solo il 10 per cento dei loro investimenti in debito nei mercati emergenti in valuta locale; Nonostante le argomentazioni per il fatto che il debito denominato in valuta locale sia tanto impegnativo. Un portafoglio che comprende le obbligazioni locali sul mercato emergente offre una diversificazione poiché le correlazioni con altri titoli (titoli e obbligazioni) sono basse e i rendimenti potenziali derivanti da un miglioramento del credito e dall’apprezzamento della valuta nelle economie emergenti sono attraenti.

Luigi Russi: “Hungry Capital”

Luigi Russi: “Hungry Capital”

L’espansionismo aggressivo dei parametri finanziari di efficienza contro la logica della produzione contadina emerge più chiaramente in relazione al fenomeno del “land grabbing” (accaparramento della terra). L’accaparramento di terre e’ semplicemente l’acquisizione su larga scala di terreni agricoli in varie aree del mondo in via di sviluppo, dall’Africa all’ Ucraina. I responsabili di esso sono, in gran parte, una conseguenza dell’ economizzazione complessiva del sistema alimentare:
(1) la crisi mondiale dei prezzi alimentari 2007-2008, che ha spinto molti governi a dare disposizioni per un mondo di prezzi dei prodotti alimentari sempre più volatili.

(2) un aumento della domanda di biocarburanti, a causa del progressivo esaurimento dei combustibili fossili.

(3) l’incertezza collegata ai cambiamenti climatici, ai quali l’agricoltura “tecnificata” ha contribuito.

Come parte del ciclo di “feedback positivo” che colpisce attualmente il rapporto tra il sistema economico sotto la morsa delle pressioni finanziarie e il suo ambiente extra-economico, questi sintomi hanno portato ad un disciplina sempre più aggressiva di quest’ultimo, con il pretesto di un’ ulteriore stretta in materia di agricoltura. Il miglior esempio di questo e’ proprio l’accaparramento della terra. Qui, infatti, è dove la riconfigurazione della coproduzione dopo motivi economici si gira verso l’elemento base della produzione agricola – la terra – e lo isola, al fine di includerlo in diversi assemblaggi dai quali l’estrazione duratura del profitto finanziario può essere sostenuta. Questo può andare per quanto riguarda l’acquisizione di terreni puramente allo scopo di beneficiare degli aumenti dei prezzi, trattando esplicitamente come un altro asset finanziario per il quale si prevede una forte domanda (a causa del degrado delle risorse del pianeta) e che sia in grado di fornire un riparo contro l’inflazione.