Raggiungere una prosperità duratura dipende dalla capacità di far prosperare le persone, entro certi limiti. Questi limiti non sono stabiliti da noi, ma dall’ecologia e dalle risorse di un pianeta finito. La libertà illimitata di espandere i nostri appetiti materiali non è sostenibile. Il cambiamento è essenziale. Sono stati identificati due componenti specifici del cambiamento. Il primo è la necessità di fissare l’economia: sviluppare una nuova macroeconomia ecologicamente corretta. Questo nuovo quadro economico dovrà collocare l’attività economica entro limiti ecologici. L’investimento ecologico deve svolgere un ruolo assolutamente vitale. Se il debito deve essere tenuto sotto controllo, ciò suggerisce che sarà necessario un diverso rapporto di risparmio. E che è probabile un diverso equilibrio tra consumo e investimento nella funzione di domanda aggregata. Inoltre, il livello e la natura di questo investimento richiedono quasi certamente un diverso equilibrio tra investimenti pubblici e privati. Una macroeconomia ecologica richiederà una nuova ecologia degli investimenti. Ciò significherà rivisitare i concetti di redditività e produttività e metterli a un servizio migliore nel perseguimento di obiettivi sociali a lungo termine. Avremo quasi certamente bisogno di abbandonare l’insensata infatuazione per la produttività del lavoro e di pensare sistematicamente alle condizioni per un alto impiego nei settori a basso tenore di carbonio. Soprattutto, la nuova macroeconomia dovrà essere ecologicamente e socialmente istruita, ponendo fine alla follia di separare l’economia dalla società e dall’ambiente. Essa dovrà ridurre la dipendenza strutturale dalla crescita incessante dei consumi e trovare un meccanismo diverso per raggiungere la stabilità della base. Il meccanismo esistente, in ogni caso, ci ha deluso. Un’economia resiliente – capace di resistere a shock esterni, mantenere i mezzi di sostentamento delle persone e vivere all’interno dei nostri mezzi ecologici – è l’obiettivo a cui dovremmo mirare. La seconda componente del cambiamento sta nel mutare la logica sociale del consumismo. Questo cambiamento deve procedere attraverso la fornitura di alternative reali e credibili attraverso le quali le persone possono prosperare. E queste alternative devono andare oltre la possibilità di rendere più sostenibili i sistemi di base di fornitura (ad esempio nel settore alimentare, abitativo e dei trasporti). Devono inoltre fornire alle persone la possibilità di partecipare pienamente alla vita della società, senza ricorrere a un’accumulazione materiale insostenibile e a una competizione di status improduttivo. Fare questi cambiamenti potrebbe essere la più grande sfida mai affrontata dalla società umana. Inevitabilmente solleva la questione dell’amministrazione – nel senso più ampio del termine. Come si può raggiungere una prosperità condivisa in una società pluralistica? In che modo l’interesse dell’individuo deve essere bilanciato con il bene comune? Quali sono i meccanismi per raggiungere questo equilibrio? Queste sono alcune delle domande sollevate da questa sfida. In particolare, naturalmente, tali cambiamenti sollevano domande sulla natura e sul ruolo del governo stesso.
Categoria: Provocazioni
Derek Wall :”Economics after Capitalism”
Mentre la dotazione statale può essere umanizzata e i mercati addomesticati dal compito sociale, il compito fondamentale richiede che sia lo stato sia il mercato facciano un passo indietro. I beni comuni danno un’alternativa importante a entrambi. Lo slogan anti-capitalista, sopra tutti, dovrebbe essere “difendere, estendere e approfondire i beni comuni”. Nella storia, essi sono stati la forma dominante della regolazione, fornendo un’alternativa quasi totalmente ignorata dagli economisti, riluttanti ad ammettere che i sostituti al mercato e allo stato persino esistano. All’interno dei beni comuni, la scarsità, se esiste, è di solito gestita e le risorse vengono conservate attraverso sistemi di allocazione organizzati dagli utenti. I beni comuni funzionano meglio per consenso e, a differenza del capitalismo, non dipendono dalla crescita costante. Forniscono accesso condiviso a risorse importanti affinché i bisogni umani possano essere soddisfatti con potenziale equità. La globalizzazione anti-capitalista potrebbe essere etichettata come il movimento per i beni comuni. Dove perdono i capitalisti, i neo-liberali continueranno costantemente. Le loro richieste sono illimitate perché il capitalismo, per sopravvivere, necessita di una continua commodificazione. Il capitalismo cerca di estendere la merce; il movimento anticapitalistico resiste conservando i beni comuni. Ad esempio, nel sud America e nel sud Africa, la protesta di base mira a impedire la privatizzazione dell’acqua. Nel cyberspazio, downloaders, hackers e designers open source cercano di mantenere l’accesso gratuito. I verdi e gli ecofemministi di sussistenza proteggono i terreni comunali dalle società private.
La libera circolazione delle persone: follia, necessità o diritto?
05-10-2017
di Gianni Belletti
Ritengo che sia folle far gestire da privati la permanenza nel nostro territorio dei richiedenti asilo.
Prima di argomentare la mia posizione vorrei citare quanto Roger Cohen ha scritto sul NYT un paio di anni fa, circa la “minaccia” immigrazioni negli USA : “Grandi bugie generano grandi paure che producono grandi bramosie per grandi uomini forti” (1), come premessa e come lente per riflettere sul seguito.
Nel 2007, il Commissario Europeo per la Giustizia dichiarò :”La sicurezza (dei confini della Unione Europea) non è più un monopolio del settore pubblico, è parte del bene comune, e la responsabilità per la sua realizzazione deve essere condivisa tra settore pubblico e privato”(2)
Perchè questo personaggio se ne esce con battute simili ?
Secondo me è interessante riflettere sugli studi che Saskia Sassen ha condotto sulla società degli Stati Uniti, dopo l’avvio del processo delle privatizzazioni delle carceri, avviato circa 40 anni fa.
Risultano dati agghiaccianti: “ad oggi (2014), 1 americano su 100 è incarcerato, o in una prigione statale o in una prigione federale o detenuto in una cella locale in attesa di giudizio. Se a questi aggiungiamo coloro che sono sottoposti ad altre forme di privazione della libertà (arresti domiciliari e liberà vigilata), il totale arriva a 7 milioni di americani, 1 ogni 31.. E se contiamo tutti coloro che hanno avuto problemi con la giustizia, arriviamo a 65 milioni di persone, cioè uno su 4….se avessimo bisogno di una prova per testimoniare tale stato eccezionale, il proliferare di prigioni private ne sarebbe naturalmente la prova”(3)
Il “Transnational Institute “(4) ha valutato il mercato per la sicurezza dei confini nel 2015 in 15 miliardi di euro, con proiezioni di 29 miliardi per il 2022.
Per renderci conto della “dimensione” di questi numeri, è interessante paragonarli con le stime che l’Interpol e l’Europol hanno segnalato, sempre per il 2015, circa il turnover generato dal traffico dei migranti: siamo tra i 5 ed i 6 miliardi di euro.(5)
Vuol dire che il mercato del controllo delle frontiere è almeno tre volte più redditizio del mercato dei trafficanti di uomini.
Ora è possibile che questo alto funzionario europeo non sapesse di cosa stava parlando ?
Tra l’altro è possibile che non conoscesse il lavoro di Elinor Ostrom sui beni comuni ?(6)
Più che parlare di sicurezza come bene comune, bisognerebbe considerare i migranti che oggi arrivano nel nostro territorio come “bene pubblico”, se pensiamo che l’anno scorso il 40% degli arrivi in Italia sono stati bambini. Se fossimo intelligenti investiremmo su di loro, prima di tutto sulla loro istruzione.
Di fatto in Europa si è proceduto a trasferire “porzioni” di gestione della sicurezza dei confini e delle persone richiedenti asilo, al settore privato : la Gran Bretagna ha fatto la parte del leone; la Svezia, oggi, è l’unico paese che ha ripubblicizzato la sicurezza dei confini e la gestione dei richiedenti asilo.
In Italia, lo stato mantiene la sorveglianza, l’identificazione e il mantenimento dell’ordine, ma ha delegato la sicurezza, le pulizie, il catering, il mantenimento delle strutture, l’attenzione medica e l’aiuto legale.
Fino agli anni 80 era la Croce Rossa che si incaricava dei richiedenti asilo politico; poi, di fronte all’aumento delle richieste e per la mancanza di risorse umane, ha favorito il coinvolgimento delle Cooperative Sociali.
Negli ultimi 15 anni, le Cooperative Sociali sono via via soppiantate da multinazionali già presenti nel settore della sicurezza nei paesi anglosassoni (4xS, Tascor, Mitie, Serco, Geo) (7).
Queste multinazionali stanno progressivamente estromettendo da questo “mercato” le cooperative sociali perché arrivano ad offrire il 20-30% in meno nei bandi di concorso, che vengono assegnati in base all’offerta più bassa (un caso per tutti quello del CIE di Roma che ha estromesso la cooperativa sociale “Auxilium” che richiedeva 41 € a persona al giorno, contro i 28,80 € della società legata alla multinazionale GEPSA , filiale di SUEZ).
Queste multinazionali possono permettersi economie di scala impensabili ad altre realtà economiche, quindi possono offrire prezzi più bassi e strappare ad altri il “mercato”.
Lunaria stima che tra il 2005 e il 2011 lo Stato Italiano ha speso 1 miliardo di dollari nel sistema della detenzione dei migranti (8).
Ma come siamo arrivati a questa situazione al limite del paradosso ?
Credo che il motivo principale stia nel fatto che è assurdo consentire che praticamente la sola possibilità che ha un migrante di entrare nell’Unione europea sia facendo richiesta di asilo politico ( a meno che non faccia parte della élite economica del suo paese naturalmente).
Il sociologo Carlo Melegari, tra gli altri in Italia ed in Europa, ritiene giustamente che bisognerebbe percorrere strade differenti, potenziando le nostre rappresentanze diplomatiche nei paesi del “Sud” del mondo, dando l’opportunità di ottenere visti provvisori di qualche mesi o qualche anno, a condizione di avere dati anagrafici certi, luogo di destinazione e persona che si incarica dell’accoglienza, a condizione di avere una cauzione che viene persa nel caso non si rispettino gli accordi.
Si potrebbe quindi dare al migrante la possibilità di viaggiare con i mezzi ordinari, con visto legale, si potrebbe dare la possibilità di lavorare in regola; avremmo nel territorio persone che non sarebbero a carico dello Stato. (9)
Non dimentichiamo che il migrante non è né un potenziale delinquente, né un potenziale deficiente. (Viktor Orban ha dichiarato “tutti i terroristi sono migranti” (10)
Poi, certo, rimarrebbero i richiedenti asilo per quegli stati dove non sussistono le condizioni per avere delle rappresentanze diplomatiche o dove regimi dittatoriali, carestie, guerre impedirebbero una circolazione nella legalità. In questi mesi l’Italia sta organizzando la gestione dei migranti con un paese, quale la Libia, che non ha mai firmato la Convenzione di Ginevra(11).
Proposte simili purtroppo spaventano prima di tutto i partiti politici, complici i mezzi di informazione che presentano gli attuali flussi migratori come se stessimo assistendo ad un’invasione.
Eppure i numeri dicono altro: nel 2015, nel mondo, ci sono stati 244 milioni di migranti (il 3% della popolazione mondiale). Alle porte dell’Unione Europea, nel 2015, si sono presentate 1 milione di persone, pari allo 0,2% della sua popolazione di 510 milioni.
Nel 2016 in tutta l’Unione Europea si sono registrate 204.300 domande di asilo politico. (13)
In Italia, nei primi 6 mesi del 2016 ci sono stati 70.222 arrivi sulle nostre coste, contro gli 83.360 dei primi 6 mesi del 2017. (13)
Se poi guardiamo fuori Europa, ci accorgiamo che , in fondo, non facciamo proprio tutto questi sforzi.
Saskia Sassen ha fatto un calcolo interessante: nel 2012, i profughi accolti dal Pakistan per un dollaro Usa di Pil/per capita sono stati 605;per la Repubblica Democratica del Congo 399, per il Kenia 321, per la Germania, che è il più ricco degli stati europei, sono stati 15. (14)
Allora perché questa risposta “securitaria” alle immigrazioni, costata 5000 morti nel mediterraneo solo nel 2016 ?
Perchè abbiamo reso “normale” la detenzione dei migranti ?
Personalmente la risposta che credo di poter dare è la seguente: la libera circolazione delle persone non è funzionale alla libera circolazione delle merci (e dei servizi) e del capitale .
Un esempio, per quanto semplice e banale , può essere di aiuto. Un investitore per la produzione di una T-shirt non investe in California, dove la mano d’opera costa 20 dollari l’ora, ma in Bangladesh, dove costa 0,50 dollari l’ora. Investe in Bangladesh, per vendere in California, cioè sposta liberamente capitale e merci. Se si potesse spostare liberamente anche quell’operaio pagato 0,50, il gioco non si potrebbe più fare.
Oggi se osiamo opporci alla libera circolazione delle merci e del capitale, saremmo tacciati di primitivi; eppure Keynes, a Bretton Woods è riuscito a garantire 30 anni (“gloriosi”) di stabilità e crescita economica a tutto l’occidente, limitando la libertà di circolazione delle merci e del capitale (l’altro suo intento, con l’istituzione di una unità di conto internazionale, il “bancor”, per impedire agli stati di andare o in surplus o in deficit commerciale e quindi finanziario, non è passato per il peso politico degli Usa).
“Aiutiamoli a casa loro” vuole dire questo : permettiamo a tutti i paesi di tutelare le proprie manifatture, imponendo dazi a quanto viene dall’estero, e freniamo l’impeto di “investire” che viene sempre più forzato dalla finanza internazionale, alla caccia di profitti sempre maggiori, ignari della salvaguardia ambientale..
“Aiutiamoli a casa loro” vuole dire per noi pagare più care tutte le merci, comprese le materie prime.
Il rischio reale, credo, sia arrivare ad accettare che esistono due tipi di cittadini: alcuni hanno più diritti di altri. Oggi l’italiano più di un “marocchino” nell’avere assegnato un alloggio popolare, domani qualcun altro più di noi nell’ottenere un diritto da parte della collettività.
La libera circolazione delle persone è un diritto. Oggi viviamo in un mondo globalizzato in un regime di apartheid, in cui un quinto della popolazione mondiale, fra cui noi, possiamo praticamente andare dove vogliamo, quando vogliamo, mentre gli altri 4/5 non lo possono fare.
Se fossimo più attenti, ci accorgeremo però che la libera circolazione delle persone è anche una necessità. A questo proposito vorrei concludere citando Ivan Krastev : “La globalizzazione ha trasformato il mondo in un villaggio, ma questo villaggio vive sotto una dittatura, la dittatura delle comparazioni mondiali. Le persone non confrontano più la propria vita con quelle dei vicini, ma con quella degli abitanti più ricchi del pianeta.
In questo nostro mondo interconnesso, l’immigrazione è la nuova rivoluzione: non una rivoluzione novecentesca delle masse, ma una rivoluzione verso l’esterno, compiuta da individui e famiglie, e ispirata non dalle immagini del futuro dipinte dagli ideologi ma dalle foto di Google Maps che ritraggono la vita dall’altro lato della frontiera.
Questa nuova rivoluzione non ha bisogno di movimenti o di leader politici per avere successo. Così non dobbiamo sorprenderci se per molti sfortunati del pianeta attraversare i confini europei è molto più attraente di ogni utopia. Per un numero crescente di persone, l’idea di cambiamento significa cambiare il paese in cui si vive, non il governo sotto cui si vive” (15)
Gianni Belletti, Comunità Emmaus Ferrara
1)”Big lies produce big fears that produce big yearnings for big strongmen” . Roger Cohen , New York Times op-ed columnist, 31.12.2015
2) Rodier C., “Xénophobie business. A quoi servent les contro^les migratoires ? Paris La Découverte, 2012, p.34
3) Saskia Sassen : “Expulsions”, 2014, pos. 831
(4) istituto di ricerca per la difesa della democrazia, della giustizia e delloo sviluppo sostenibile,con base in Amsterdam: www.tni.org
(5) Joint Europol-Interpol Report, Migrant Smuggling Networks, May 2016, p.2
(6) “Governing the Commons” sui beni comuni, pubblici e collettivi, grazie al quale è stata insignita del Premio Nobel per l’economia , prima donna, tra l’altro a ricevere tale titolo.
(7) si veda Lydia Arbogast “Migrant Detention in the European Union: a Thriving Business”, Migreurop 2016
(8) Lunaria, Costi Disumani, La Spesa Pubblica per il contrasto dell’immigrazione irregolare, 2013
(9) si veda www.cestim.it
(10) Z. Bauman , “Strangers at Our Door”, 2016 pos 417
(11) Convenzione di Ginevra 1951, Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici (1966)
(12) www.migreurop.org
(13) Il Manifesto, 26.07.2017
(14) Saskia Sassen: “Expulsions”, 2014, pos 769
(15) After Europe, University of Pennsylvania Press, 2017.
Joseph Huber, James Robertson : “Creating New Money”
Ci si può chiedere perché ora si possa applicare con successo la riforma del signoraggio quando le speranze dei grandi uomini negli ultimi duecento anni –
Compresi Jefferson, Lincoln e Gladstone – che lo stato potrebbe recuperare
la prerogativa esclusiva della creazione di soldi ufficiali, sono fallite. Ci sono
numerosi motivi.
In primo luogo, ci sono molte persone nel mondo di oggi che c’erano anche cinquanta anni fa, che si rendono conto che istituzioni formali di democrazia,
che permettono solo alle persone di votare per i leader politici ogni pochi anni,
non sono sufficienti. Sono necessarie anche istituzioni economiche e finanziarie
che, predistribuendo (piuttosto che ridistribuire) risorse in modo efficiente e giusto, permetteranno e incoraggeranno le persone ad avere maggiore controllo sulla loro vita e maggiore responsabilità per se stessi e per gli altri.
Questo è sempre più comprensibile.
In secondo luogo, gli impatti della globalizzazione stanno radicalizzando un numero crescente di persone in paesi ricchi e poveri. La vita economica e finanziaria è sempre più percepita essere sistematicamente spostata a favore di una minoranza privilegiata, all’interno e tra i paesi. Aumentano le pressioni
per i cambiamenti nelle prassi e nelle istituzioni monetarie e finanziarie esistenti, nazionali e internazionali.
In terzo luogo, con l’arrivo dell’Età dell’Informazione, si sta diffondendo la consapevolezza che il sistema monetario è diventato essenzialmente un sistema informativo.
Questo sta mettendo in discussione nuove prospettive e nuovi partecipanti
discutono su come dovrebbe essere organizzato e gestito un sistema monetario del ventunesimo secolo.
Quarto, c’è il fattore ambientale sempre più importante. Giustamente o erroneamente, molte persone vedono il sistema monetario e finanziario di oggi
sostenere attivamente attività economiche dannose per l’ambiente. Si stanno cercando soluzioni per cambiare questo aspetto.
Fino ad ora, la pertinenza della riforma del signoraggio rispetto a questi temi è stata nascosta – nascosta dagli “specchietti per le allodole” che sono stati una caratteristica del sistema monetario e bancario. Ma questo si sta già cominciando
a modificare. Con l’aumento di un numero crescente di persone in molti paesi
determinati ad imparare di più su come funzionano oggi denaro e banche e come potrebbero funzionare meglio, le pressioni per la riforma del signoraggio
continueranno a crescere.
David Harvey: “The Enigma of Capital”
Il punto della politica rivoluzionaria non è quello di proteggere l’ordine antico, ma di attaccare direttamente le relazioni di classe e le forme capitalistiche del potere statale. Le trasformazioni rivoluzionarie non possono essere realizzate senza cambiare minimamente le nostre idee, abbandonare le nostre credenze e pregiudizi, rinunciare a varie comodità e diritti quotidiani, sottoporci ad un nuovo regime quotidiano, cambiando i nostri ruoli sociali e politici, riassegnando i nostri diritti, doveri e responsabilità e alterare i nostri comportamenti per meglio adattarsi alle esigenze collettive e ad una volontà comune.
Il mondo intorno a noi – le nostre geografie – deve essere radicalmente modificato, così come le nostre relazioni sociali, il rapporto con la natura e tutte le altre sfere d’azione nel processo co-rivoluzionario. È comprensibile, in una certa misura, che molti preferiscano una politica di negazione a una politica di confronto attivo con tutto ciò. Sarebbe anche confortante pensare che tutto questo potesse essere compiuto pacificamente e volontariamente, che avremmo spogliato noi stessi, per così dire, di tutto ciò che ora ci impedisce di creare un ordine sociale piu’ solido ed equo. Ma sarebbe ingenuo immaginare che tutto questo si potrebbe realizzare senza nessuna lotta attiva né forme di violenza. Il capitalismo è entrato nel mondo, come disse una volta Marx, bagnato di sangue e di fuoco. Anche se potrebbe essere possibile fare un lavoro migliore agendo dall’interno piuttosto che entrando da fuori, le probabilità sono pesantemente contrarie a qualsiasi passaggio puramente pacifico verso la terra promessa.
César Rendueles: “La Grande Regressione”
Terminata la Guerra fredda, via via che il welfare state veniva messo sempre più in discussione dall’egemonia neoliberista, l’Ue si è rivelata essere una carcassa finanziaria vuota, nella quale la decisione di introdurre una moneta unica senza politiche fiscali e sociali comuni rappresentava un suicidio al rallentatore.
L’unica via d’uscita all’implosione dell’Unione europea consiste nel cancellare il malinteso storico per cui nella costruzione di un progetto politico continentale era il mercato ad avere la priorita’. Solo i contromovimenti democratizzanti della periferia del Sud dell’Europa sono in grado di promuovere un progetto del genere. Rispetto ai partiti politici tradizionali, questi contromovimenti mirano a un empowerment popolare che metta fine alla dittatura dei mercati. E a differenza dei programmi identitari o neoprotezionisti, come la Brexit, hanno bisogno di un ambito di sovranità allargato che permetta loro di sfidare con successo le élite economiche globali, sfuggite al controllo degli stati nazionali. Inoltre una demercificazione su scala europea potrebbe comportare una forte sfida all’ordine neoliberista globale.
Robert Reich: “Saving Capitalism”
Nel 2014 i dirigenti, dipendenti e clienti di una catena di supermercati del New England chiamato Market Basket si sono uniti per opporsi alla decisione del Consiglio di Amministrazione all’inizio di quell’anno di spodestare il popolare amministratore delegato della catena, Arthur T. Demoulas. Le loro manifestazioni e boicottaggi hanno svuotato più di settanta negozi della catena. Ciò che rendeva speciale Arthur T., come era conosciuto, era il suo modello di business. Teneva i prezzi più bassi rispetto ai suoi concorrenti, pagava di piu’ i suoi dipendenti, e dava loro ed ai suoi manager più autorità. Poco prima della sua estromissione ha offerto ai clienti un ulteriore sconto del 4 per cento, sostenendo che avrebbero potuto utilizzare il denaro meglio degli azionisti. In altre parole Arthur T. vedeva l’azienda come una società mista della quale tutti avrebbero dovuto beneficiare, non solo i suoi azionisti – motivo per cui il Consiglio lo ha licenziato. Alla fine, i consumatori e i dipendenti hanno vinto. Il boicottaggio costava a Market Basket tanto che il consiglio ha venduto la società a Arthur T.
Market Basket non era una società a partecipazione pubblica, al momento, ma stiamo cominciando a vedere il modello di business di Arthur T. spuntare dovunque, anche dove sono coinvolti molti azionisti. Patagonia, un grande produttore di abbigliamento con sede a Ventura, in California, per esempio, si e’ organizzata come una cosiddetta società “benefit corporation” a scopo di lucro ma il cui atto costitutivo richiede di prendere in considerazione gli interessi dei lavoratori, della comunità, e dell’ambiente, così come degli azionisti. Le benefit corporation sono certificate e la loro performance è regolarmente rivista da entità terze parti senza scopo di lucro, come ad esempio B Lab. Entro il 2014, ventisette stati avevano promulgato leggi che permettono alle aziende di strutturarsi in questo modo, dando così ai direttori protezione giuridica esplicita nel prendere in considerazione gli interessi di tutte le parti interessate e non solo degli azionisti che li hanno eletti. E da allora, più di 1.165 aziende in 121 settori sono state certificate come benefit corporation, tra cui la società a conduzione familiare Seventh Generation.
Potremmo essere testimoni dell’inizio di un ritorno ad una forma di capitalismo delle parti interessate (stakeholders) che è stato dato per scontato in America sessanta anni fa. Ma alcuni economisti sostengono che il “capitalismo degli azionisti” (shareholders) è più efficiente.
Essi sostengono che sotto la pressione degli azionisti, le società muovono le risorse economiche dove sono più produttive e, quindi, permettono all’intera economia di crescere più velocemente. A loro avviso, la forma di capitalismo delle parti interessate di metà del secolo scorso ha rinchiuso le risorse in modo improduttivo e ha permesso ai CEO (amministratori delle societa’) di essere troppo compiacenti – impiegando lavoratori dei quali la società non ha bisogno, pagandoli troppo, e diventando troppo legati alle loro comunità.
Eppure, quando si guardano criticamente le conseguenze del capitalismo degli azionisti, che ha messo radici nel 1980 – un’ eredita’ che comprende i salari statici o in calo per la maggior parte degli americani, insieme con la crescente insicurezza economica, i posti di lavoro in outsourcing, le comunità abbandonate, la retribuzione dei CEO che e’ aumentata vertiginosamente, un focus miope sui guadagni trimestrali, e un settore finanziario simile a un casino’ il quasi fallimento del quale nel 2008 ha determinato danni collaterali alla maggior parte degli americani – si potrebbe avere qualche dubbio su quanto bene il capitalismo degli azionisti ha lavorato in pratica. Solo alcuni di noi sono azionisti aziendali, e una piccola minoranza di ricchi americani possiedono la maggior parte delle azioni negoziate in borsa dell’America. Ma siamo tutti “stakeholders” dell’economia americana, e la maggior parte degli stakeholders non si sono comportati particolarmente bene. Forse e’ piu’ “sano” un capitalismo attento a tutte le parti in causa rispetto alle varie forme di capitalismo attente solo agli azionisti.
Gianni Belletti (responsabile Emmaus S.Nicolò – Ferrara) “Senza vie d’uscita: a chi non conviene la libera circolazione delle persone?”
Partiamo dalla conclusione: la libera circolazione delle persone non conviene a chi può sfruttare la mano d’opera a basso costo che si può facilmente reperire dallo Sri Lanka al Bangladesh, dal Kenya alla Cina.
Non conviene neanche a chi compra i prodotti finali ottenuti con quella mano d’opera.
Se il costo di un operaio tessile negli USA è di circa 20 dollari l’ora, nei paesi suddetti siamo attorno ai 50 centesimi l’ora.
Chi sfrutta questa differenza, sia l’imprenditore o il consumatore finale, non ha interesse naturalmente che il lavoratore cingalese abbia la possibilità di spostarsi negli USA per aspirare ad un salario più alto. A meno che quello stesso lavoratore ci possa arrivare illegalmente negli USA e possa quindi prestarsi al lavoro nero, forzando al ribasso il salario legale.
La libera circolazione delle persone nel mondo, quindi, è ‘fuori discussione’ perché darebbe fastidio in questo senso, a chi coltiva un certo tipo di interessi.
La versione che i media e la gran parte dei politici ci propinano però è differente: lo scontro di civiltà e la guerra di religione sottendono al bombardamento quotidiano a cui siamo sottoposti.
Mi permetto di proporre una angolo di lettura diverso, con la speranza di far trapelare uno spiraglio di luce non colto.
Vorrei fare due premesse per essere certi di parlare la stessa lingua:
1 – Viviamo in un apartheid globalizzato: nel mondo, circa un quinto della popolazione, fra cui noi italiani, può spostarsi praticamente liberamente e andare dove vuole, quando vuole. Gli altri quattro quinti (80%) non lo possono fare.
2 – Il migrante non è né un potenziale delinquente, né un potenziale deficiente. Se la pensiamo come Orban, il premier ungherese, che un anno fa dichiarò che tutti i migranti sono terroristi, allora non possiamo dialogare.
Il punto di partenza dovrebbe sempre essere la “Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo”, scritta nel 1948, da donne e uomini che uscivano da due guerre spaventose: ebbene hanno scritto un testo bellissimo, un vademecum per l’umanità, cercando di raccogliere tutte le precauzioni da mettere in pratica se si vuole tutelare la collettività umana e la casa che la ospita.
In particolare gli articoli 13 e 14 ci ricordano che la libera circolazione delle persone nel mondo deve essere una priorità. Addirittura l’articolo 15 suggerisce il diritto di cittadinanza… fantascienza oggi per noi, ma realtà, per esempio in Argentina.
Bene, alla luce di questi presupposti stiamo assistendo a due follie.
La prima: l’unica possibilità che ha uno straniero (appartenente ai quattro quinti di cui sopra) di entrare legalmente nell’Unione Europea e in Italia, oggi, è di fare domanda di asilo politico, anche se proviene da un paese in cui non c’è dittatura, in cui non rischia la vita, in cui non ci sono carestie o pestilenze particolari.
Questa condizione ha prodotto 470.000 ingressi illegali nel nostro territorio in tre anni, 170.000 domande di asilo politico (ma i dati andrebbero aggiornati quasi quotidianamente).
Vi lascio immaginare cosa vuole dire organizzare un’audizione per un richiedente asilo: la Convenzione di Ginevra giustamente stabilisce dei passi da compiere per rispondere adeguatamente a una simile richiesta. Così, ad oggi, siamo a tempi di attesa che superano i due anni , considerando sia la prima audizione che l’eventuale ricorso.
Tra parentesi, come alternative al diniego, il richiedente asilo ha due possibilità nell’ambito dell’UE: ottenere lo status di rifugiato politico (perché viene provato che è direttamente coinvolto in dinamiche che mettono a repentaglio la sua vita), oppure ottenere la “protezione sussidiaria” (in quanto coinvolto indirettamente nel rischio, per essere, per esempio, un familiare, un amico, un collega della persona veramente a rischio).
L’Italia per fortuna ricorre ad una terza via, la “protezione umanitaria” per tutti quei casi al limite, ai quali non sapremmo dare, come società civile, una collocazione diversa.
La seconda follia è che oggi facciamo gestire questa permanenza ai privati. Siamo talmente manipolati dal punto di vista informativo che siamo convinti che lo Stato non sia assolutamente in grado di gestire direttamente tutte quelle situazioni che riguardano il benessere dei propri cittadini.
Non voglio dire che lo Stato opera sempre al meglio, ma voglio affermare che in certi ambiti il privato è bene che non entri e non ci possa lucrare sopra, quindi a mio avviso non ci dovrebbero essere alternative alla gestione pubblica. Oggi li chiamano “beni comuni”, più o meno impropriamente. I migranti sono un “bene comune”.
Ora se la gestione dei migranti la affidiamo alla Caritas, a Viale K, ad altre associazioni o cooperative sane, siamo sicuri che non c’è nessun profitto. Purtroppo non lo possiamo sempre supporre e tanta “cronaca nera” degli ultimi tempi lo ha dimostrato.
Per ogni richiedente asilo lo Stato garantisce 35 euro al giorno, di cui 3 vanno direttamente alla persona, e gli altri servono per organizzare la sua permanenza quotidiana.
Sociologi importanti in Italia e nel mondo tentano faticosamente di veicolare alternative a questo modo di gestire la spinta migratoria verso quei paesi dell’un quinto della popolazione mondiale a cui accennavamo sopra.
Potenziamo le nostre delegazioni nel mondo, emettiamo visti di ingresso temporanei, condizionati a caparre, collegati a persone già presenti nel nostro territorio, permettiamo viaggi sicuri, legali, agli stessi nostri prezzi; diamo altre opportunità di entrare legalmente nel nostro territorio ed eventualmente, di lavorare nel rispetto della legalità.
Non ci sono alternative né vie d’uscita: dobbiamo mettere in condizione tutte le persone del mondo di muoversi liberamente. Dobbiamo dare l’opportunità a chiunque di venire nel nostro territorio, naturalmente con delle condizioni e con modalità che non diano spazio alla illegalità, al traffico ed allo sfruttamento di chi aspira legittimamente ad una vita migliore.
Non dimentichiamo che, negli ultimi 3 anni, sono più di 100 mila i nostri ragazzi con meno di 25 anni che hanno espatriato per cercare un lavoro e una opportunità che stiamo negando loro in Italia. Come genitori ci dispiace che vadano via, ma allo stesso tempo siamo contenti che possano trovare, da qualche parte, uno spazio dove affermarsi.
Ebbene, possiamo ancora pensare due pesi e due misure?
John Kay: “Other People’s Money: Masters of the Universe or Servants of the People?”
Una strategia preferibile è quella di ‘affamare la bestia’: di adottare misure di riforma strutturale del settore finanziario in grado di ridurre la quantità di capitale disponibile per sostenere le attività di trading ed eliminare sovvenzioni incrociate a queste attività. Ciò che viene proposto qui e’ un approccio normativo mutato radicalmente. E’ banale ma vero che quello che ci serve non è una maggiore regolamentazione, ma una migliore regolamentazione. Ma questo richiede una filosofia normativa diversa, piuttosto che autorità di regolamentazione migliori. E’ inutile suggerire che la soluzione sia quella di nominare i regolatori con l’accortezza di Nostradamus, le capacità investigative di Sherlock Holmes e l’intuizione politica di Machiavelli, così come la pazienza di Giobbe e la pelle di un rinoceronte.
Una struttura di regolamentazione efficace è quella che può essere implementata da tipi di persone che possono essere reclutati nel mondo reale per lavorare in agenzie di regolamentazione. I seguenti principi devono essere alla base della riforma: le catene di intermediazione devono essere brevi, semplici e lineari. I collegamenti tra i partecipanti al mercato sono troppo numerosi. I collegamenti con i risparmiatori e gli utenti del capitale sono troppo pochi e troppo deboli. La priorità delle operazioni tra intermediari rispetto alle transazioni con gli utenti finali è responsabile dei costi eccessivi dell’ intermediazione finanziaria, dell’ instabilità del sistema finanziario e dell’incapacità di generare le informazioni necessarie per ottenere proprietà nelle corporazioni governative ed efficienza nell’ allocazione del capitale. Non si devono affrontare questi problemi fornendo più capitale per sostenere le attività di trading delle istituzioni finanziarie stabilite. Dovrebbero essere ripristinate istituzioni specializzate, con collegamenti diretti per gli utenti finanziari dei servizi finanziari e derivanti vantaggio competitivo dalle proprie competenze per identificare e soddisfare le esigenze di questi utenti.
Mentre sono essenziali alcuni interventi normativi per imporre riforme strutturali, le ulteriori proposte di seguito descritte incoraggiano ristrutturazioni aggiuntive come risultato delle forze di mercato. Chi gestisce i soldi degli altri, o chi li consiglia su come il loro denaro dovrebbe essere manipolato, dovrebbe dimostrare un comportamento conforme agli standard di fedeltà e di prudenza nei rapporti con il cliente, evitando conflitti di interesse. Questi obblighi di elevati standard di comportamento nella gestione del patrimonio altrui dovrebbero essere garantiti con sanzioni penali e civili, dirette principalmente alle persone fisiche piuttosto che alle organizzazioni. Mentre la cultura delle organizzazioni è di fondamentale importanza, la cultura è il prodotto dei comportamenti individuali, in particolare il comportamento individuale di coloro che hanno responsabilità di leadership. Il Governo dovrebbe considerare i servizi finanziari un’industria come le altre. Il regolamento dovrebbe essere mirato a problemi specifici – garanzia dei depositi, abuso dei consumatori e prevenzione delle frodi. Le sovvenzioni pubbliche, le garanzie statali e gli altri meccanismi di sostegno del governo, tra cui il concetto sempre più mal definito, anche se vi si fa ancora ampiamente affidamento, di ‘prestatore di ultima istanza’, dovrebbero essere ritirati. Il settore finanziario non deve essere utilizzato come strumento di politica economica, e le opinioni di persone nel settore finanziario sulla politica economica devono essere trattate con la stessa (modesta) attenzione accordata alle opinioni politiche di altri uomini d’affari.
Joseph Stiglitz : “Riforma o divorzio in Europa”
Dire che l’eurozona non è andata bene dalla crisi del 2008 è una minimizzazione. I suoi paesi membri hanno prodotto risultati più scarsi dei paesi dell’Unione Europea esterni all’eurozona, e molto più scarsi degli Stati Uniti, che sono stati l’epicentro della crisi. I paesi dell’eurozona con risultati peggiori sono infangati nella depressione o in una profonda recessione; la loro situazione – si pensi alla Grecia – è per molti versi peggiori di ciò che le economie hanno sofferto nella Grande Depressione degli anni ’30. I membri dell’eurozona con risultati migliori, quali la Germania, sembrano andar bene, ma solo nel confronto; e il loro modello di crescita è in parte basato su politiche da rubamazzetto, nelle quali il successo arriva a spese di paesi già loro “partner”. Per spiegare questo stato di cose sono state proposte quattro spiegazioni. La Germania ama incolpare la vittima, additando gli sperperi della Grecia e i debiti e i deficit altrove. Ma ciò mette il carro davanti ai buoi: Spagna e Irlanda avevano avanzi di bilancio e bassi rapporti debito/PIL prima della crisi dell’euro. Dunque è la crisi che ha provocato i deficit e i debiti, non il contrario. Il feticismo del deficit è indubbiamente parte dei problemi dell’Europa. Anche la Finlandia ha avuto problemi a far fronte ai molteplici shock che ha subito, con il PIL nel 2015 circa del 5,5% inferiore al suo picco del 2008. Altri critici che incolpano la vittima citano lo stato sociale e le eccessive protezioni del mercato del lavoro come causa dei mali dell’eurozona. Tuttavia alcuni dei paesi europei con risultati migliori, quali Svezia e Norvegia, hanno gli stati sociali e le protezioni del mercato del lavoro più forti. Molti dei paesi che oggi hanno risultati scarsi andavano molto bene – sopra la media europea – prima che fosse introdotto l’euro. Il loro declino non è stato la conseguenza di improvvisi cambiamenti delle loro leggi sul lavoro o di un’epidemia di pigrizia nei paesi in crisi. Ciò che è cambiato è l’accordo sulla moneta. Il secondo tipo di spiegazione si traduce in un desiderio che l’Europa avesse avuto leader migliori, uomini e donne che comprendessero meglio l’economia e attuassero politiche migliori. Politiche carenti – non solo l’austerità ma anche cosiddette riforme strutturali malaccorte, che hanno ampliato la disuguaglianza e così indebolito ulteriormente la domanda e la crescita potenziali – hanno indubbiamente peggiorato le cose. Ma l’eurozona è stata un accordo politico in cui era inevitabile che la voce della Germania sarebbe stata forte. Chiunque abbia trattato con decisori tedeschi delle politiche nell’ultimo terzo di secolo avrebbe dovuto conoscere in anticipo il probabile risultato. Cosa più importante, dati gli strumenti disponibili, nemmeno il più brillante zar dell’economia avrebbe potuto far prosperare l’eurozona. Il terzo insieme di motivi per gli scarsi risultati dell’eurozona è una più generale critica della UE, incentrata sul debole degli eurocrati per regolamenti soffocanti, inibitori dell’innovazione. Anche questa critica non coglie nel segno. Gli eurocrati, come le leggi sul lavoro o lo stato sociale, non sono improvvisamente cambiati nel 1999, con la creazione del sistema di cambi fissi, o nel 2008, con l’inizio della crisi. Più fondamentalmente ciò che conta è il tenore di vita, la qualità della vita. Chiunque neghi quanto meglio stiamo in Europa con le nostre soffocanti aria e acqua pulite, dovrebbe visitare Pechino. Questo lascia la quarta spiegazione: più che le strutture e le politiche dei singoli paesi, va incolpato l’euro. L’euro ha un difetto di nascita. Persino i migliori decisori delle politiche che il mondo abbia mai conosciuto non avrebbero potuto farlo funzionare. La struttura dell’eurozona ha imposto il genere di rigidità associata al sistema aureo. La moneta unica ha cancellato il più importante strumento di aggiustamento dei suoi membri – il rapporto di cambio – e l’eurozona ha circoscritto la politica monetaria e di bilancio. In risposta a shock asimmetrici e a divergenze di produttività avrebbero dovuto esserci correzioni del tasso di cambio reale (al netto dell’inflazione), cioè i prezzi della periferia dell’eurozona avrebbero dovuto scendere rispetto alla Germania e all’Europa settentrionale. Ma con la Germania irremovibile riguardo all’inflazione – i suoi prezzi sono rimasti stagnanti – la correzione poteva essere realizzata solo forzando la deflazione altrove. Normalmente questo ha significato dolorosa disoccupazione e indebolimento dei sindacati; i paesi più poveri dell’eurozona, e specialmente i lavoratori al loro interno, hanno fatto le spese del fardello degli aggiustamenti. Così il progetto di spronare la convergenza tra i paesi dell’eurozona è fallito miseramente, con l’aumento delle disparità tra i paesi e all’interno di essi. Questo sistema non può funzionare e non funzionerà nel lungo termine: la politica democratica ne assicura il fallimento. Solo cambiando le norme e le istituzioni dell’eurozona l’euro può essere fatto funzionare. Ciò richiederà sette cambiamenti:
abbandono dei criteri di convergenza che prescrivono che i deficit devono essere inferiori al 3% del PIL;
sostituzione dell’austerità con una strategia di crescita, supportata da un fondo di solidarietà per la stabilizzazione;
smantellamento di un sistema incline a crisi in cui i paesi devono indebitarsi in una moneta fuori dal loro controllo e affidarsi invece a Eurobond o altri meccanismi simili;
miglior condivisione dell’onere nel corso degli aggiustamenti, con i paesi che hanno avanzi di bilancio corrente impegnati ad aumentare i salari e la spesa, assicurando in tal modo che i loro prezzi salgano più rapidamente di quelli con paesi con deficit di bilancio corrente;
modifica del mandato della Banca Centrale Europea, concentrato solo sull’inflazione, diversamente dalla Federal Reserve che tiene conto anche dell’occupazione, della crescita e della stabilità;
creazione di un’assicurazione comune sui depositi che preverrebbe la fuga di fondi da paesi con scarsi risultati e creazione di altri elementi di una “unione bancaria”;
incoraggiamento, anziché divieto, di politiche industriali mirate a garantire che i ritardatari dell’eurozona possano mettersi al passo con i leader.
Da un punto di vista economico questi sono cambiamenti piccoli; ma l’attuale dirigenza dell’eurozona può mancare della volontà politica di attuarli. Ma questo non cambia il fatto che l’attuale via di mezzo non è sostenibile. Un sistema inteso a promuovere prosperità e ulteriore integrazione ha avuto l’effetto esattamente opposto. Un divorzio amichevole sarebbe migliore dell’attuale stallo. Naturalmente ogni divorzio è costoso; ma tirare a campare sarebbe ancor più costoso. Come abbiamo già visto quest’estate nel Regno Unito, se i leader europei non vogliono o non possono prendere le decisioni difficili, gli elettori europei le prenderanno in vece loro; e i leader possono non essere felici dei risultati.