Il concetto di “prodotto interno lordo” (PIL) è stato creato e utilizzato a metà degli anni ’30 per misurare l’impatto del New Deal sull’economia degli Stati Uniti. Successivamente, il PIL sarebbe diventato il principale indicatore dello stato delle economie nazionali dopo la conferenza di Bretton Woods del 1944. Da semplice misura, criticata inizialmente per i suoi limiti e il rischio di abuso, il PIL sarebbe diventato l’indicatore centrale, un proxy del successo di un Paese, di una politica o di un governo.

Il pericolo di ingigantire e interpretare erroneamente il significato del PIL fu persino riconosciuto dal suo progenitore, Simon Kuznets, il quale, in un articolo del 1962, scrisse che “occorre tenere presenti le distinzioni tra quantità e qualità della crescita, tra i suoi costi e il ritorno, e tra il breve e il lungo periodo “. In breve, “gli obiettivi per una maggiore crescita dovrebbero specificare più crescita di cosa e per cosa”. Sebbene spesso considerata in modo positivo, la crescita del PIL indica semplicemente un importo monetario totale della produzione e dei servizi scambiati, ignorando le implicazioni ambientali e sociali delle sue componenti. Quindi, un incendio in una fabbrica chimica è positivo per la crescita del PIL. Al contrario un piacevolissimo giro in bici nella foresta con amici e famiglia non viene nemmeno catturato dal PIL. Sono stati compiuti sforzi per correggere tale assurdità, ad esempio creando metriche come il Genuine Progress Indicator (GPI). Tuttavia, il PIL mantiene il suo status di indicatore principale dello stato della società, rendendoci ciechi davanti alle principali sfide sociali e ambientali che dobbiamo affrontare come esseri umani sul pianeta Terra.

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