Usiamo costantemente il termine migrante per descrivere soggetti che attraversano o negoziano i paesaggi di confine del mondo, evitando dove possibile il ricorso a categorie come rifugiato, richiedente asilo o migrante “illegale” inventate dalle burocrazie statali o dalle loro controparti internazionali. Ci sono poche speranze di trovare un unico quadro teorico o amministrativo che possa contenere figure così diverse come i rifugiati haitiani e cubani, i migranti interni cinesi, i lavoratori africani “clandestini” in Italia o le tante persone in transito attraverso le rotte migratorie del mondo.
Tuttavia, lo slogan “Nessuno è illegale” e gli accesi dibattiti che ne derivano sono riusciti a mettere in luce un filo conduttore che attraversa le esperienze e molte lotte dei migranti sottoposti a vari gradi di illegalizzazione. A parte i molti angoli e quadri legali in cui si instaura tale illegalizzazione, la figura popolare del migrante “illegale” ha catturato l’immaginazione (e le paure) dei governi, dei media e del pubblico di tutto il mondo. Mentre i sistemi legali, in tutta la loro pluralità, tendono a etichettare come illegali determinati atti o comportamenti, questa figura popolare si distingue per il fatto che l’etichetta di illegalità si estende alla sua soggettività incarnata. Contestare l’attribuzione di questa etichetta non significa solo colpire la miriade e talvolta microscopici pregiudizi che circondano tale denominazione, ma anche mettere in discussione i meccanismi legali responsabili della produzione della figura del migrante “illegale”. Questo è il motivo per cui tale contestazione ha assunto importanza e radicalità in molti scenari diversi. Nella sua semplicità, lo slogan “Nessuno è illegale” ha ben catturato questa radicalità. Mentre questo slogan circolava, i dibattiti teorici sui movimenti migratori hanno posto al centro della scena domande e argomenti sul “diritto ad avere diritti”.