Rifiutarsi di rispettare queste recinzioni e le restrizioni di movimento è un atto politico che può palesare la violenza dei confini e la disuguaglianza del regime di frontiera globale. Per gran parte del ventesimo secolo, i confini e la sovranità dello stato erano depoliticizzati nel senso che questi non erano in discussione. Era scontato che gli umani vivessero in stati, quegli stati contenevano nazioni, e quelle nazioni dovevano essere le unità politiche fondamentali nel mondo. Questa idea ha guidato il trattato di Versailles alla fine della prima guerra mondiale ed è il fondamento del mondo post-seconda guerra mondiale organizzato attraverso le Nazioni Unite. I movimenti di migranti sono tattiche che ripoliticizzano i concetti di stati, confini e nazioni. Questa ripoliticizzazione non significa necessariamente
che questi concetti siano rifiutati; essa potrebbe causare un ulteriore irrigidimento
dei confini e sistemi più estremi di cattura e controllo dei migranti, come attestano
le risposte xenofobe in molti paesi. Tuttavia, le migliaia di morti alle frontiere e il trattamento insensibile e disumano dei migranti costituiscono un motivo per mettere in discussione la logica sottostante del sistema statale che si basa sull’esclusione violenta alle frontiere. Nonostante le morti alle frontiere e la violenza dello stato, milioni di persone continuano a muoversi.
Le decisioni di questi migranti sono ciò che Simon Springer definisce una
“rivoluzione del quotidiano” in cui gli individui diventano “ribelli” rifiutando le strutture esistenti del dominio e camminando a modo proprio. Rifiutandosi di rispettare un muro, una mappa, una linea di proprietà, un confine, un documento di identità, o un regime legale, le persone in movimento hanno sconvolto gli
schemi di esclusione, controllo e violenza degli stati. Lo fanno semplicemente spostandosi.