Negli USA, si sta parlando con sempre maggiore frequenza di applicare i concetti della Modern Monetary Theory (MMT) alla politica economica.
Sembrava inverosimile pochi anni fa, non lo è più oggi: c’è la possibilità che accada se le elezioni del 2020 porteranno un democratico progressista alla Casa Bianca, spalleggiato da solide maggioranze alla Camera e al Senato. Non è – per il momento – uno scenario ad altissima probabilità, beninteso. Ma il crescente seguito di astri nascenti del quadro politico statunitense quali Alexandria Ocasio-Cortes ne aumenta le possibilità.
Paul Krugman ha quindi dedicato un paio di articoli del suo blog alla MMT e a una teoria economica dai contenuti fortemente analoghi, la finanza funzionale di Abba Lerner (vedi qui e qui). Ma pur dichiarandosi egli stesso democratico e progressista, Krugman continua a essere scettico su alcuni elementi di queste teorie.
Ancora una volta, però, mi sembra che il buon Paul perda di vista un tema fondamentale.
Il punto chiave delle sue argomentazioni è il seguente: l’impianto Lerner / MMT presuppone che qualsiasi livello di deficit e di debito pubblico possa essere finanziato se lo Stato si indebita nella moneta che egli stesso emette. Naturalmente se il deficit raggiunge livelli tali da immettere troppo potere d’acquisto nell’economia si crea un eccesso di inflazione. Ma non ci sono rischi di insolvenza.
La critica di Krugman è che se il livello di debito implica un tasso d’interesse (affinché il debito sia finanziato) superiore al tasso di crescita sostenibile dell’economia, si verifica un effetto “palla di neve” che manda il debito fuori controllo.
E’ un argomentazione debole e, quantomeno, incompleta. Eppure Krugman conosce bene la situazione del Giappone, dove un debito pubblico di oltre il 200% del PIL non crea alcun problema né all’inflazione né ai tassi d’interesse – che si mantengono da lustri e lustri intorno allo zero.
In Giappone, il deficit pubblico è, in buona sostanza, finanziato da acquisti di titoli effettuati dalla Bank of Japan: in altri termini, monetizzato.
Detto altrimenti, supporre che il livello del debito pubblico influenzi i tassi d’interesse implica che il debito debba essere collocato sul mercato dei capitali. Se interviene la Banca Centrale a finanziarlo, o – per essere ancora più semplici – se lo Stato emette direttamente moneta, il problema degli interessi da pagare scompare.
Rimane quello dell’inflazione, se si immette troppo potere d’acquisto nel sistema. Ma questo, appunto, Lerner e gli autori MMT lo affermano con totale chiarezza.
Se c’è un motivo teorico per cui la monetizzazione del debito pubblico sia di per sé (cioè a prescindere dalle dimensioni in cui viene effettuata) una via inagibile, Krugman non lo dice. E io non vedo quale possa essere.
Certo, il debito pubblico svolge funzioni utili, prima fra tutte la possibilità di offrire ai propri cittadini un servizio di gestione del risparmio. Ma questo non implica di dover “collocare debito” sul mercato. Si tratta solo di offrire la protezione dall’inflazione (per le scadenze brevi) o qualcosa di più (un punto o due per le scadenze medie e lunghe) ai risparmiatori che desiderano una “custodia sicura” per il proprio patrimonio.
Tutto questo non produce alcun effetto “palla di neve” né alcuna insostenibilità del “debito” (che bisognerebbe cominciare a chiamare con altri nomi…).
La domanda da porre a Krugman in altri termini è: perché uno Stato emittente della propria moneta dovrebbe preoccuparsi degli interessi che paga (nella moneta stessa) ? Può non pagarli, oppure può mantenerli a livelli pari all’inflazione – (quindi zero in termini reali, e di conseguenza al di sotto della crescita reale del PIL: niente “palle di neve”, appunto).
Non ho dubbi che parecchi lettori solleciteranno Krugman a confrontarsi su questo argomento. Attendo con curiosità la sua risposta.