Fuori dall’euro, una ragionevole svalutazione del cambio potrebbe
aiutare a guadagnare spazi di espansione della domanda interna senza
incorrere in disavanzi con l’estero. Sarebbe necessario un controllo
stretto dei movimenti di capitale finanziario e dovrebbero eseere adottate
misure oculate di controllo delle importazioni. Dovrebbe essere
ripristinata la possibilità per lo Stato di acquistare preferibilmente
beni nazionali e di poter avviare iniziative industriali. Il governo
dovrebbe stabilire un piano di impiego straordinario per i giovani di
almeno due milioni di posti di lavoro. Questo ci potrebbe portare in rotta
di collisione con l’Ue e il suo ultraliberismo – ammesso che,
naturalmente, ci sia stato concesso di rimanere nell’Ue dopo l’abbandono
della moneta unica. Questo ci riporta, naturalmente, al contesto
internazionale che potrebbe essere non solo sfavorevole al keynesismo in
un paese solo, ma addirittura ostile.
Mese: gennaio 2018
John Weeks :”Economics of the 1%”
La Banca dei regolamenti internazionali, un’istituzione globale che serve le banche centrali nazionali (situata a Basilea, Svizzera, a circa 80 chilometri ad ovest degli “Gnomi di Zurigo” – i banchieri svizzeri), ha stimato che il fatturato medio giornaliero sui mercati valutari nel 2010 è stato di circa 4 miliardi di dollari. Secondo una stima generosa, forse il 10% di questo fatturato ha interessato scambi connessi ad un’attività utile, come ad esempio una società che cambia valute per pagare i fornitori. Dall’inizio del trading speculativo ad un minuto dopo la mezzanotte di un lunedì (questi mercati presentano disfunzioni 24 ore al giorno), il fatturato commerciale avrebbe corrisposto le vendite commerciali annuali totali negli Stati Uniti o nell’UE prima della colazione il giovedì della stessa settimana.
Micromega: 4/2017
Spiega Alessandro Somma: «La democrazia partecipativa, tipicamente
intrecciata con la sovranità statuale, indica la possibilità degli
individui di incidere sulle decisioni collettive: possibilità effettiva,
assicurata dal funzionamento del principio di parità in senso sostanziale,
che la Costituzione italiana reputa non a caso un presupposto fondamentale
per “l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione
politica, economica e sociale del paese” (art. 3). Diverso è il caso della
democrazia deliberativa, che coinvolge tutti i potenziali interessati
dalla decisione da assumere, i cosiddetti stakeholders, offrendo però loro
solo la mera possibilità formale di prendere parte alle decisioni: senza
considerazione per l’effettiva possibilità di incidere sul loro contenuto».
L’Europa è ovviamente il continente in cui questo processo si è
esplicitato in maniera più radicale. Come afferma Peter Mair in Governare
il vuoto. La fine della democrazia dei partiti, il ridimensionamento
della democrazia popolare, condizione necessaria per il ridimensionamento
del movimento operaio, può essere considerata la raison d’être di tutto
l’esperimento europeo, il cui ultimo stadio inizia con la creazione del
sistema di «cambi convergenti» del Sistema monetario europeo (Sme), nel
1979, fino ad arrivare all’introduzione dell’euro nei primi anni 2000.
L’Italia è la perfetta cartina di tornasole di questo processo. Come ha
ricordato di recente Joseph Halevi, l’Italia fu il paese più danneggiato
dall’adesione allo Sme, che comportò una rivalutazione del tasso di cambio
reale molto significativa, con tutta una serie di conseguenze estremamente
deleterie per il paese: in primis, l’apparizione di un deficit estero
strutturale. Alla luce di ciò, verrebbe da chiedersi perché i nostri dirigenti insistettero tanto per entrare nello Sme. Una possibile spiegazione ce la fornisce nientedimeno che Giorgio Napolitano, che al tempo, in veste di deputato del Pci, capì bene che «la disciplina del nuovo meccanismo di cambio europeo» significava non accomodare più il conflitto distributivo e addossare alle richieste salariali la
responsabilità della perdita di competitività del paese. La creazione di un potente vincolo esterno, nella forma del cambio semifisso, avrebbe insomma facilitato una maggiore flessibilità verso il basso dei salari. E così è stato. Questa chiave interpretativa è applicabile a tutte le successive fasi costituenti dell’eurosistema: dall’Atto unico del 1986 – in cui furono formalizzate le fondamenta neoliberiste della costituzione economica europea, dalla libera circolazione dei capitali al divieto (de facto) delle politiche industriali, attraverso la normativa sugli aiuti di
Stato – fino al Trattato di Maastricht del 1992, che fissò i termini cui subordinare la fase finale dell’unione monetaria, dall’indipendenza assoluta della Banca centrale europea dagli Stati nazionali, alla flessibilizzazione del lavoro, ai limiti al deficit e al debito pubblico. Limiti che sono stati successivamente inaspriti, prima col patto di stabilità e crescita del 1997 e poi col fiscal compact del 2012, che prevedeva addirittura l’integrazione di una norma sull’obbligo del pareggio/surplus di bilancio negli ordinamenti nazionali (o ancor meglio nelle Costituzioni) degli Stati membri.
Dani Rodrik: “The Globalization Paradox”
Dobbiamo reinventare il capitalismo per un nuovo secolo in cui le forze della globalizzazione economica sono molto più potenti. Proprio come il capitalismo magro di Smith (Capitalismo 1.0) è stato trasformato in economia mista di Keynes (Capitalismo 2.0), dobbiamo considerare una transizione dalla versione nazionale dell’economia mista alla sua controparte globale. Dobbiamo immaginare un migliore equilibrio tra i mercati e le loro istituzioni di supporto a livello globale. Siamo tentati di pensare che la soluzione – Capitalismo 3.0 – si basi su un’estensione diretta della logica del Capitalismo 2.0: un’economia globale richiede un governo globale. Ma l’opzione del governo globale è un punto morto per la grande maggioranza delle nazioni, almeno per il prossimo futuro. Non è né pratico né auspicabile. Abbiamo bisogno di una visione diversa, che tutela i considerevoli vantaggi di una moderata globalizzazione, riconoscendo esplicitamente le virtù della diversità nazionale e la centralità del governo nazionale. Quello di cui abbiamo bisogno, in effetti, è un aggiornamento del compromesso di Bretton Woods per il ventunesimo secolo. Questo aggiornamento deve riconoscere le realtà di oggi: il commercio è sostanzialmente libero, il genio della globalizzazione finanziaria è sfuggito alla bottiglia, gli Stati Uniti non sono più la superpotenza economica dominante del mondo e i principali mercati emergenti (in particolare la Cina) non possono più essere ignorati O dare ad essi il permesso di cavalcare liberliberamente il sistema. Non possiamo tornare ad alcuna mitica “epoca d’oro” con alte barriere commerciali, controlli di capitali dilaganti e un GATT debole, né dovremmo desiderarlo. Quello che possiamo fare è riconoscere che il perseguimento dell’iperglobalizzazione è una pazzia e riorientare le nostre priorità di conseguenza.
Richard Wilkinson: “The Spirit Level”
Piuttosto che aspettare semplicemente che il governo faccia qualcosa per noi, dobbiamo iniziare ad occuparcene personalmente subito nelle nostre vite e nelle istituzioni della nostra società. Ciò di cui abbiamo bisogno non è una grande rivoluzione ma un flusso continuo di piccoli cambiamenti in una direzione coerente. E per darci la migliore possibilità di fare la trasformazione necessaria della società, dobbiamo ricordare che l’obiettivo è quello di creare una società più socievole, il che significa evitare i disagi e la dislocazione che aumentano l’insicurezza e la paura e spesso finiscono in una reazione disastrosa. L’obiettivo è aumentare il senso di sicurezza delle persone e ridurre la paura; far sentire a tutti che una società più equa non solo ha spazio per loro ma anche che offre una vita più appagante di quanto sia possibile in una società dominata dalla gerarchia e dalla disuguaglianza.
Dani Rodrik: “The Globalization Paradox”
Le nuove forme di governo globale sono intriganti e meritano ulteriore sviluppo, ma in ultima analisi si scontrano con alcuni limiti fondamentali: le identità e gli attaccamenti politici ruotano ancora intorno agli stati nazionali; Le comunità politiche sono organizzate a livello nazionale anziché a livello globale; Norme veramente globali sono emerse solo in una stretta gamma di questioni; E vi sono differenze sostanziali in tutto il mondo sugli accordi istituzionali auspicabili. Questi nuovi meccanismi transnazionali possono sbarazzarsi di alcune questioni controverse, ma non sostituiscono il governo reale. Sono insufficienti a sostenere una vasta globalizzazione economica. Dobbiamo accettare la realtà di un mondo diviso e fare alcune scelte difficili. Dobbiamo essere espliciti su dove finiscono i diritti e le responsabilità di una nazione e cominciano quelli di un’altra. Non possiamo sfidare il ruolo degli stati nazionali e continuare sull’assunto che stiamo assistendo alla nascita di una comunità politica globale. Dobbiamo riconoscere e accettare le restrizioni alla globalizzazione che una divisione politica comporta. Il campo di applicazione di una regolamentazione globale attuabile limita l’ambito della globalizzazione desiderabile. Non possiamo raggiungere l’iperglobalizzazione, e non dobbiamo fingere di poterlo fare.
Dani Rodrik: “The Globalization Paradox: Democracy and the Future of the World Economy”
Come possiamo gestire la tensione tra la democrazia nazionale e i mercati globali? Abbiamo tre opzioni. Possiamo limitare la democrazia nell’interesse di minimizzare i costi transazionali internazionali, trascurando il colpo di frusta economico e sociale che l’economia globale produce occasionalmente. Possiamo limitare la globalizzazione, nella speranza di costruire la legittimità democratica a casa. O possiamo globalizzare la democrazia, a costo della sovranità nazionale. questo ci dà un menu di opzioni per ricostruire l’economia mondiale. Il menu cattura il trilemma politico fondamentale dell’economia mondiale: non possiamo avere la iperglobalizzazione, la democrazia e l’autodeterminazione nazionale in una sola volta. Noi possiamo averne al massimo due su tre. Se vogliamo l’iperglobalizzazione e la democrazia, dobbiamo rinunciare allo stato di nazione.
Se dobbiamo mantenere lo stato di nazione e vogliamo anche l’iperglobalizzazione, dobbiamo dimenticare la democrazia. E se vogliamo combinare la democrazia con lo Stato nazione, allora dobbiamo dire addio alla globalizzazione profonda.
L’unica opzione rimanente sacrifica l’iperglobalizzazione. Lo ha fatto il regime di Bretton Woods, per questo l’ho chiamato il compromesso di Bretton Woods. Il regime di Bretton Woods – GATT ha consentito ai paesi di ballare alla loro propria tonalità, purché abbiano eliminato una serie di restrizioni di frontiera sugli scambi e hanno trattato ugualmente tutti i loro partner commerciali. E’ stato loro permesso (anzi sono stati incoraggiati) a mantenere restrizioni sui flussi di capitali, in quanto gli architetti dell’ordine economico postbellico non credevano che i flussi di capitale liberi fossero compatibili con la stabilità economica interna.
Le politiche dei paesi in via di sviluppo sono state effettivamente lasciate al di fuori della disciplina internazionale.
Dani Rodrik: “The Globalization Paradox: Democracy and the Future of the World Economy”
Il pragmatismo avrebbe servito meglio il paese rispetto alla rigidità ideologica. Ma esiste una lezione politica più profonda nell’esperienza argentina, fondamentale per la natura della globalizzazione. Il paese si era scontrato contro una delle verità centrali dell’economia mondiale: la democrazia nazionale e la globalizzazione profonda sono incompatibili.
La politica democratica getta un’ombra lunga sui mercati finanziari e rende impossibile ad una nazione l’integrazione profonda con l’economia mondiale. La Gran Bretagna aveva imparato questa lezione nel 1931, quando fu costretta ad abbandonare l’oro. Keynes lo aveva sancito nel regime di Bretton Woods. L’Argentina lo ha trascurato.
Nella sua ode alla globalizzazione, The Lexus and the Olive Tree, Tom Friedman ha descritto come i finanziatori e gli speculatori “elettronici” che possono spostare miliardi di dollari in tutto il mondo in un istante, hanno costretto tutte le nazioni a indossare una “camicia di forza dorata”. “Questo indumento definitivo della globalizzazione, ha spiegato, ha riunito le regole fisse a cui tutti i paesi devono sottostare: il libero scambio, i mercati dei capitali liberi, l’impresa libera e il piccolo governo.
“Se il tuo paese non è stato preparato ad uno di questi”, ha scritto, “lo sara’ presto”. Quando lo metti in pratica, ha continuato, succedono due cose: “la tua economia cresce e la tua politica si riduce”. Poiche’ la globalizzazione (che per Friedman significava un’integrazione profonda) non consente alle nazioni di deviare dalle regole, la politica interna è ridotta a una scelta tra Coca Cola e Pepsi. Tutti gli altri sapori, soprattutto quelli locali, vengono banditi.
Noi amiamo la nostra democrazia e la sovranità nazionale, eppure segniamo un accordo commerciale dopo l’altro e trattiamo i flussi di capitali liberi come ordine naturale delle cose. Questo stato instabile e incoerente è una ricetta per il disastro. L’Argentina negli anni ’90 ci ha dato un esempio vivo ed estremo. Tuttavia, non si deve vivere male governati da un paese in via di sviluppo devastato dai flussi di capitali speculativi che sperimenta la tensione su base quasi quotidiana. Lo scontro tra la globalizzazione e le disposizioni sociali interne è una caratteristica fondamentale dell’economia globale.
David C. Korten: “When Corporations Rule the World”
I principi della rivoluzione ecologica puntano verso un sistema globale di economie locali che distribuiscono e localizzano sia il potere che la responsabilità, creano luoghi per le persone, incoraggiano la cultura della vita in tutta la sua diversità e limitano l’opportunità per un gruppo di esternalizzare i costi ambientali del proprio consumo su altri. Invece di forzare le realtà locali nella concorrenza internazionale come condizione della loro sopravvivenza, un sistema globale localizzato incoraggia l’autostima a soddisfare le esigenze locali. Invece di monopolizzare la conoscenza per un guadagno privato, incoraggia la condivisione delle conoscenze e delle informazioni. Invece di promuovere una cultura omogenea globalizzata dei consumatori, alimenta la diversità culturale. Invece di misurare il successo in termini di denaro, incoraggia la misurazione del successo in termini di sana funzione sociale.
Le possibilità sono straordinarie quando riconosciamo che molti posti di lavoro esistenti non sono solo insoddisfacenti, ma implicano anche la produzione di beni e servizi che non sono necessari o causano danni alla società e all’ambiente. Ciò include un gran numero di posti di lavoro nell’industria automobilistica, chimica, di imballaggio e petrolifera; La maggior parte dei lavori pubblicitari e di marketing; I broker e i gestori di portafogli finanziari impegnati in forme speculative e altre forme estrattive di investimento; avvocati avvoltoi; 14 milioni di operai del settore delle armi in tutto il mondo; i 30 milioni di persone occupate dalle forze militari del mondo. Ciò porta a un fatto sorprendente: le società sarebbero migliori se, invece di pagare milioni di persone a volte imprevedibili per fare un lavoro nocivo per la qualità delle nostre vite, dessimo loro la stessa retribuzione per stare a casa e non fare nulla. Benché lontano da una soluzione ottimale, avrebbe più senso che la prassi totalmente irrazionale delle organizzazioni che pagano le persone per fare cose che portano ad una riduzione netta di ricchezza e benessere reali. Perché non organizzarsi per sostenere le persone invece di impegnarsi in attività che soddisfano esigenze critiche utilizzando metodi ecologicamente benigni? I numerosi esempi includono la cura e l’attenzione amorevoli per i bambini e gli anziani, l’istituzione di mercati per la comunità e centri per gli anziani, l’educazione dei nostri giovani, la consulenza ai tossicodipendenti, la cura adeguata dei malati mentali, il mantenimento dei parchi e dei comuni, l’organizzazione di eventi sociali e culturali per la comunità, la registrazione degli elettori, la pulizia dell’ambiente, la ricostruzione delle foreste, l’istituzione di avvocati politici di interesse pubblico, la cura dei giardini della comunità, l’organizzazione di programmi di riciclaggio comunitario e l’ottimizzazione delle case per la conservazione energetica. Allo stesso modo, molti di noi potrebbero utilizzare più tempo per la ricreazione, la solitudine tranquilla e la vita familiare e per praticare le discipline e gli hobby che ci mantengono fisicamente, mentalmente, psicologicamente e spiritualmente sani.
Il nostro problema non è la carenza di posti di lavoro; è una struttura economica che crea troppa dipendenza dall’occupazione retribuita e poi paga le persone per fare cose nocive trascurando così tante attività essenziali per una società sana. È istruttivo ricordare che fino agli ultimi dieci o venti anni orsono la maggior parte degli adulti anche nelle società più “sviluppate” – in maggioranza sostanziale donne – ha servito la società in modo produttivo in un lavoro non retribuito nell’economia sociale.
Le funzioni globali di governo relative agli affari economici, sociali e ambientali sono divisi tra il sistema delle Nazioni Unite e il sistema Bretton Woods. Il sistema Bretton Woods comprende la Banca mondiale, l’FMI e l’Organizzazione mondiale del commercio. Queste istituzioni ben finanziate, con forte presenza di economisti neoliberisti, dominano l’arena della politica economica, valutano solo la performance dagli indicatori economici convenzionali e non riconoscono alcuna responsabilità pubblica per le conseguenze sociali e ambientali delle loro politiche. Il sistema delle Nazioni Unite comprende il segretariato delle Nazioni Unite e le sue agenzie specializzate (quali l’Organizzazione mondiale della sanità, l’Organizzazione internazionale del lavoro e l’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura) e i suoi vari fondi di assistenza allo sviluppo (come il programma di sviluppo delle Nazioni Unite, il fondo delle Nazioni Unite per la popolazione, l’UNICEF e il Fondo di sviluppo delle Nazioni Unite per le donne). Le Nazioni Unite non hanno praticamente alcuna influenza sulle politiche economiche ma gli resta il compito di rimediare ai disordini sociali e ambientali originati dalle politiche difettose di questi tre.
Le istituzioni di Bretton Woods si lasciano dietro i problemi: i fondatori delle Nazioni Unite hanno pensato che il coordinamento delle attività economiche, sociali, culturali, educative, sanitarie e affini internazionali, compresa la sorveglianza delle istituzioni di Bretton Woods, anche se la Banca Mondiale, l’FMI e l’OMC sono ufficialmente nominate agenzie specializzate delle Nazioni Unite, operano come poteri indipendenti e rifiutano ogni sforzo delle Nazioni Unite per coordinare o sorvegliare le loro attività. Questa divisione del governo degli affari globali tra due sistemi concorrenti, uno che rappresenta l’interesse umano e l’altro l’interesse aziendale, ha funzionato bene per le corporazioni e male per le persone.
Il sistema delle Nazioni Unite ha di gran lunga il mandato più ampio, è più aperto e democratico, è generalmente rispettoso della sovranità nazionale e pone seriamente attenzione alle priorità umane, sociali e ambientali.
E’stato efficace solo marginalmente, in parte a causa della mancanza di fondi, della negligenza e dell’incapacità di influenzare le politiche economiche delle istituzioni di Bretton Woods. Le istituzioni di Bretton Woods, segrete e non democratiche, assumono una visione strettamente economica del mondo, si ispirano alla sovranità nazionale e ai processi democratici, incoraggiano la concorrenza tra le nazioni e collocano costantemente interessi finanziari e sociali davanti agli interessi umani e planetari. Hanno la maggiore competenza professionale e poteri esecutivi.
Tim Jackson : “Prosperity without Growth”
Raggiungere una prosperità duratura dipende dalla capacità di far prosperare le persone, entro certi limiti. Questi limiti non sono stabiliti da noi, ma dall’ecologia e dalle risorse di un pianeta finito. La libertà illimitata di espandere i nostri appetiti materiali non è sostenibile. Il cambiamento è essenziale. Sono stati identificati due componenti specifici del cambiamento. Il primo è la necessità di fissare l’economia: sviluppare una nuova macroeconomia ecologicamente corretta. Questo nuovo quadro economico dovrà collocare l’attività economica entro limiti ecologici. L’investimento ecologico deve svolgere un ruolo assolutamente vitale. Se il debito deve essere tenuto sotto controllo, ciò suggerisce che sarà necessario un diverso rapporto di risparmio. E che è probabile un diverso equilibrio tra consumo e investimento nella funzione di domanda aggregata. Inoltre, il livello e la natura di questo investimento richiedono quasi certamente un diverso equilibrio tra investimenti pubblici e privati. Una macroeconomia ecologica richiederà una nuova ecologia degli investimenti. Ciò significherà rivisitare i concetti di redditività e produttività e metterli a un servizio migliore nel perseguimento di obiettivi sociali a lungo termine. Avremo quasi certamente bisogno di abbandonare l’insensata infatuazione per la produttività del lavoro e di pensare sistematicamente alle condizioni per un alto impiego nei settori a basso tenore di carbonio. Soprattutto, la nuova macroeconomia dovrà essere ecologicamente e socialmente istruita, ponendo fine alla follia di separare l’economia dalla società e dall’ambiente. Essa dovrà ridurre la dipendenza strutturale dalla crescita incessante dei consumi e trovare un meccanismo diverso per raggiungere la stabilità della base. Il meccanismo esistente, in ogni caso, ci ha deluso. Un’economia resiliente – capace di resistere a shock esterni, mantenere i mezzi di sostentamento delle persone e vivere all’interno dei nostri mezzi ecologici – è l’obiettivo a cui dovremmo mirare. La seconda componente del cambiamento sta nel mutare la logica sociale del consumismo. Questo cambiamento deve procedere attraverso la fornitura di alternative reali e credibili attraverso le quali le persone possono prosperare. E queste alternative devono andare oltre la possibilità di rendere più sostenibili i sistemi di base di fornitura (ad esempio nel settore alimentare, abitativo e dei trasporti). Devono inoltre fornire alle persone la possibilità di partecipare pienamente alla vita della società, senza ricorrere a un’accumulazione materiale insostenibile e a una competizione di status improduttivo. Fare questi cambiamenti potrebbe essere la più grande sfida mai affrontata dalla società umana. Inevitabilmente solleva la questione dell’amministrazione – nel senso più ampio del termine. Come si può raggiungere una prosperità condivisa in una società pluralistica? In che modo l’interesse dell’individuo deve essere bilanciato con il bene comune? Quali sono i meccanismi per raggiungere questo equilibrio? Queste sono alcune delle domande sollevate da questa sfida. In particolare, naturalmente, tali cambiamenti sollevano domande sulla natura e sul ruolo del governo stesso.