Jowitt concordava con Fukuyama sul fatto che non sarebbe apparsa nessuna nuova ideologia universale capace di sfidare la democrazia liberale, ma prevedeva il ritorno di vecchie identità etniche, religiose e tribali. E infatti uno dei paradossi della globalizzazione è che la libera circolazione di persone, capitali, beni e idee, se avvicina i popoli, riduce anche la capacità degli stati-nazione di integrare gli stranieri. Come ha osservato Arjun Appadurai una decina di anni fa, “lo stato-nazione si è progressivamente ridotto alla finzione della sua etnia come ultima risorsa culturale su cui possa esercitare un pieno controllo”.
La conseguenza accidentale delle politiche economiche che seguono il mantra “non c’è alternativa” è che le politiche identitarie hanno occupato il centro della politica europea. Il mercato e internet, pur avendo dimostrato di essere forze potenti capaci di aumentare le possibilità di scelta degli individui, hanno eroso la coesione sociale delle società occidentali, in quanto entrambi rafforzano l’inclinazione dell’individuo a soddisfare le sue preferenze naturali, come preferire il contatto con i propri simili tenendosi lontani dagli stranieri. Viviamo in un mondo che è più connesso ma anche meno integrato. La globalizzazione connette disconnettendo. Jowitt avvertiva che in questo mondo connesso/disconnesso bisogna prepararsi a esplosioni d’ira e a “movimenti di rabbia” nati dalle ceneri degli stati-nazione indeboliti.

Un decennio fa, il filosofo ed ex dissidente ungherese Gáspár Miklós Tamás faceva notare come l’Illuminismo, in cui l’idea dell’Unione europea affonda le sue radici, preveda una cittadinanza universale. Tale cittadinanza, però, necessita di due precondizioni: o i paesi poveri e disfunzionali diventano paesi in cui valga la pena vivere, oppure l’Europa deve aprire a tutti le sue frontiere. Niente di tutto ciò accadrà nel prossimo futuro, e forse non accadrà mai. Oggi il mondo è popolato da numerosi stati falliti di cui nessuno vuole essere cittadino e l’Europa non ha la capacità di tenere aperte le frontiere, una cosa a cui i suoi cittadini o elettori non acconsentirebbero.

La globalizzazione ha trasformato il mondo in un villaggio, ma questo villaggio vive sotto una dittatura – la dittatura delle comparazioni mondiali. Le persone non confrontano più la propria vita con quella dei vicini, ma con quella degli abitanti più ricchi del pianeta.
In questo nostro mondo interconnesso, l’immigrazione è la nuova rivoluzione: non una rivoluzione novecentesca delle masse, ma una rivoluzione verso l’esterno composta da individui e famiglie e ispirata non dalle immagini del futuro dipinte dagli ideologi ma dalle foto di Google Maps che ritraggono la vita dall’altro lato della frontiera. Questa nuova rivoluzione non ha bisogno di movimenti o leaders politici per avere successo. Così, non dobbiamo sorprenderci se per molti sfortunati del pianeta attraversare i confini europei è più attraente di ogni utopia. Per un numero crescente di persone, l’idea di cambiamento significa cambiare il paese in cui si vive, non il governo sotto cui si vive.
Il problema di questa rivoluzione dei migranti è la sua preoccupante capacità di ispirare una controrivoluzione in Europa. La caratteristica essenziale di molti dei partiti populisti di destra europei è il fatto che siano non tanto nazionalisti e conservatori, quanto reazionari.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Protected by WP Anti Spam