Partiamo dalla conclusione: la libera circolazione delle persone non conviene a chi può sfruttare la mano d’opera a basso costo che si può facilmente reperire dallo Sri Lanka al Bangladesh, dal Kenya alla Cina.

Non conviene neanche a chi compra i prodotti finali ottenuti con quella mano d’opera.
Se il costo di un operaio tessile negli USA è di circa 20 dollari l’ora, nei paesi suddetti siamo attorno ai 50 centesimi l’ora.
Chi sfrutta questa differenza, sia l’imprenditore o il consumatore finale, non ha interesse naturalmente che il lavoratore cingalese abbia la possibilità di spostarsi negli USA per aspirare ad un salario più alto. A meno che quello stesso lavoratore ci possa arrivare illegalmente negli USA e possa quindi prestarsi al lavoro nero, forzando al ribasso il salario legale.

La libera circolazione delle persone nel mondo, quindi, è ‘fuori discussione’ perché darebbe fastidio in questo senso, a chi coltiva un certo tipo di interessi.
La versione che i media e la gran parte dei politici ci propinano però è differente: lo scontro di civiltà e la guerra di religione sottendono al bombardamento quotidiano a cui siamo sottoposti.

Mi permetto di proporre una angolo di lettura diverso, con la speranza di far trapelare uno spiraglio di luce non colto.
Vorrei fare due premesse per essere certi di parlare la stessa lingua:
1 – Viviamo in un apartheid globalizzato: nel mondo, circa un quinto della popolazione, fra cui noi italiani, può spostarsi praticamente liberamente e andare dove vuole, quando vuole. Gli altri quattro quinti (80%) non lo possono fare.
2 – Il migrante non è né un potenziale delinquente, né un potenziale deficiente. Se la pensiamo come Orban, il premier ungherese, che un anno fa dichiarò che tutti i migranti sono terroristi, allora non possiamo dialogare.

Il punto di partenza dovrebbe sempre essere la “Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo”, scritta nel 1948, da donne e uomini che uscivano da due guerre spaventose: ebbene hanno scritto un testo bellissimo, un vademecum per l’umanità, cercando di raccogliere tutte le precauzioni da mettere in pratica se si vuole tutelare la collettività umana e la casa che la ospita.
In particolare gli articoli 13 e 14 ci ricordano che la libera circolazione delle persone nel mondo deve essere una priorità. Addirittura l’articolo 15 suggerisce il diritto di cittadinanza… fantascienza oggi per noi, ma realtà, per esempio in Argentina.

Bene, alla luce di questi presupposti stiamo assistendo a due follie.

La prima: l’unica possibilità che ha uno straniero (appartenente ai quattro quinti di cui sopra) di entrare legalmente nell’Unione Europea e in Italia, oggi, è di fare domanda di asilo politico, anche se proviene da un paese in cui non c’è dittatura, in cui non rischia la vita, in cui non ci sono carestie o pestilenze particolari.
Questa condizione ha prodotto 470.000 ingressi illegali nel nostro territorio in tre anni, 170.000 domande di asilo politico (ma i dati andrebbero aggiornati quasi quotidianamente).
Vi lascio immaginare cosa vuole dire organizzare un’audizione per un richiedente asilo: la Convenzione di Ginevra giustamente stabilisce dei passi da compiere per rispondere adeguatamente a una simile richiesta. Così, ad oggi, siamo a tempi di attesa che superano i due anni , considerando sia la prima audizione che l’eventuale ricorso.
Tra parentesi, come alternative al diniego, il richiedente asilo ha due possibilità nell’ambito dell’UE: ottenere lo status di rifugiato politico (perché viene provato che è direttamente coinvolto in dinamiche che mettono a repentaglio la sua vita), oppure ottenere la “protezione sussidiaria” (in quanto coinvolto indirettamente nel rischio, per essere, per esempio, un familiare, un amico, un collega della persona veramente a rischio).
L’Italia per fortuna ricorre ad una terza via, la “protezione umanitaria” per tutti quei casi al limite, ai quali non sapremmo dare, come società civile, una collocazione diversa.

La seconda follia è che oggi facciamo gestire questa permanenza ai privati. Siamo talmente manipolati dal punto di vista informativo che siamo convinti che lo Stato non sia assolutamente in grado di gestire direttamente tutte quelle situazioni che riguardano il benessere dei propri cittadini.
Non voglio dire che lo Stato opera sempre al meglio, ma voglio affermare che in certi ambiti il privato è bene che non entri e non ci possa lucrare sopra, quindi a mio avviso non ci dovrebbero essere alternative alla gestione pubblica. Oggi li chiamano “beni comuni”, più o meno impropriamente. I migranti sono un “bene comune”.
Ora se la gestione dei migranti la affidiamo alla Caritas, a Viale K, ad altre associazioni o cooperative sane, siamo sicuri che non c’è nessun profitto. Purtroppo non lo possiamo sempre supporre e tanta “cronaca nera” degli ultimi tempi lo ha dimostrato.
Per ogni richiedente asilo lo Stato garantisce 35 euro al giorno, di cui 3 vanno direttamente alla persona, e gli altri servono per organizzare la sua permanenza quotidiana.

Sociologi importanti in Italia e nel mondo tentano faticosamente di veicolare alternative a questo modo di gestire la spinta migratoria verso quei paesi dell’un quinto della popolazione mondiale a cui accennavamo sopra.
Potenziamo le nostre delegazioni nel mondo, emettiamo visti di ingresso temporanei, condizionati a caparre, collegati a persone già presenti nel nostro territorio, permettiamo viaggi sicuri, legali, agli stessi nostri prezzi; diamo altre opportunità di entrare legalmente nel nostro territorio ed eventualmente, di lavorare nel rispetto della legalità.

Non ci sono alternative né vie d’uscita: dobbiamo mettere in condizione tutte le persone del mondo di muoversi liberamente. Dobbiamo dare l’opportunità a chiunque di venire nel nostro territorio, naturalmente con delle condizioni e con modalità che non diano spazio alla illegalità, al traffico ed allo sfruttamento di chi aspira legittimamente ad una vita migliore.

Non dimentichiamo che, negli ultimi 3 anni, sono più di 100 mila i nostri ragazzi con meno di 25 anni che hanno espatriato per cercare un lavoro e una opportunità che stiamo negando loro in Italia. Come genitori ci dispiace che vadano via, ma allo stesso tempo siamo contenti che possano trovare, da qualche parte, uno spazio dove affermarsi.

Ebbene, possiamo ancora pensare due pesi e due misure?

 

 

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