La crescita della cultura di negoziazione non ha solo portato a un calo dello standard etico, ma ha anche contribuito all’instabilità finanziaria e ha aumentato la ‘predisposizione all’azione’ che aumenta i costi dell’ intermediazione finanziaria.


L’obiettivo appropriato è quello di ridurre i volumi di scambio ai modesti livelli che servono alle reali esigenze dell’economia non finanziaria.
Un suggerimento di riforma che è stato ampiamente discusso è una tassa sul valore di tutte le transazioni finanziarie. Riscossa ad un tasso basso, una simile tassa avrebbe scarso impatto sulla redditività degli investimenti a lungo termine, ma eliminerebbe l’ attrattiva del trading ad alta frequenza, che dipende dall’ arbitraggio velocissimo e dalle variazioni di prezzo microscopiche. Questa idea è spesso chiamata ‘Tobin tax’, dopo che James Tobin, l’economista americano che l’ ha proposta nel 1972, e ha ricevuto un ampio sostegno in seno all’Unione europea. Se una “Tobin tax” potesse essere applicata su base universale nel suo
ambito geografico e in modo non discriminatorio a tutte le forme di strumento finanziario, avrebbe notevole successo. Ma se, come sembra inevitabile, alcune giurisdizioni finanziarie non imponessero la tassa – e non vi è attualmente alcuna possibilità che anche gli USA lo facciano – e se, come sembra inevitabile, non c’è modo pratico di imporre la tassa su una base non discriminatoria tra operazioni derivate o altri strumenti complessi e transazioni nei titoli sottostanti, l’imposta rischia di avere più effetti collaterali indesiderabili che benefici. Tale imposta imperfetta sarebbe probabilmente un nuovo stimolo all’ arbitraggio regolamentato, e un ulteriore fonte di profitto per i commercianti, guadagnato a scapito degli investitori a lungo termine che dovrebbero in effetti sopportare il peso della tassa.

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