Oggi, usiamo i termini società civile e settore no-profit indifferentemente, a seconda se ci si riferisca alla loro funzione puramente sociale o alla loro classificazione istituzionale.
Ora, una nuova generazione sta cominciando a muoversi al di là di queste distinzioni datate, preferendo usare il termine beni comuni. Nel lungo passaggio dai comuni feudali ai beni comuni, le generazioni successive hanno efficacemente perfezionato i principi di autogoverno democratico ad un alto livello.
Attualmente, i beni comuni stanno crescendo più velocemente del mercato
economico in molti paesi in tutto il mondo. Inoltre, poiche’ cio’ che creano i beni comuni è in gran parte di valore sociale e non pecuniario, è spesso respinto dagli economisti. Nonostante questo, l’economia sociale ha una forza impressionante. Secondo un sondaggio di 40 nazioni condotto dal Johns Hopkins University Center per gli studi della società civile, il no-profit incide per 2.2 miliardi di dollari sulle spese operative. In otto paesi presi in esame, (Stati Uniti, Canada, Giappone, Francia, Belgio, Australia, Repubblica Ceca e Nuova Zelanda) il settore no-profit rappresenta, in media, il 5 per cento del PIL. La percentuale di questo settore del PIL in questi paesi supera il PIL di tutte le utenze, è uguale al PIL dell’
industria delle costruzioni, ed è quasi uguale al PIL delle banche, delle aziende di assicurazioni e di servizi finanziari. Il settore dei beni comuni e’ quello
che genera la volontà positiva che permette una società di cooperare come entita’ culturale.
I mercati e i governi sono l’estensione dell’ identità sociale di un popolo. Senza la ricostituzione continua del capitale sociale, non ci sarebbe la fiducia sufficiente per consentire ai mercati e ai governi di funzionare, eppure noi spregiativamente categorizziamo i beni comuni come “il terzo settore”.
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L’attuale dibattito tra gli economisti, gli imprenditori e i funzionari pubblici
su quello che sembra essere un nuovo tipo di economia stagnante a lungo termine emergente in tutto il mondo è un indicatore della grande trasformazione in atto mentre l’economia si sposta da valore di scambio nel mercato a valore condivisibile nei beni comuni. Il PIL globale è cresciuto a un tasso calante in seguito alla Grande Recessione.
Mentre gli economisti indicano l’elevato costo dell’energia, della demografia, un rallentamento della crescita delle forze di lavoro, il debito dei consumatori e del governo, un aumento della quota di reddito globale passato al settore piu’ ricco della societa’, e l’avversione dei consumatori per la spesa tra le altre cause, ci può essere un fattore di fondo di più ampia portata, anche se ancora embrionale, che potrebbe spiegare almeno parte del rallentamento del PIL. Poiché il costo marginale di produzione di beni e servizi e’ vicino allo zero settore dopo settore, i profitti si stanno restringendo e il PIL sta cominciando a scemare. E, con l’aumento di beni e servizi che diventano quasi gratuiti, sono stati fatti meno acquisti nel mercato, diminuendo ancora il PIL. Anche questi elementi ancora
acquistati nell’economia di scambio sono sempre meno numerosi considerato che molte persone ridistribuiscono e riciclano merci precedentemente comprate nell’ economia di condivisione, estendendo il loro ciclo di vita utile, con una perdita concomitante di PIL.
Una legione crescente dei consumatori sta anche optando per l’accesso alla proprietà delle merci, preferendo pagare solo per il tempo limitato che usano una macchina, una bicicletta, giocattoli, utensili, o altri oggetti, e questo si traduce in diminuzione del PIL.
Nel frattempo, mentre l’automazione, la robotica e l’intelligenza artificiale (AI)
sostituiscono decine di milioni di lavoratori, il potere d’acquisto dei consumatori nel mercato continua a contrarsi, riducendo ulteriormente il PIL. Contemporaneamente alla proliferazione del numero di prosumer, l’attività economica sta migrando dall’economia di scambio nel mercato verso l’economia della condivisione sui beni comuni, ancora una volta contraendo la crescita del PIL. Il punto è, mentre la stagnazione economica potrebbe verificarsi per molte altre ragioni, il cambiamento più importante ha appena iniziato a svilupparsi, il che potrebbe spiegare parte del rallentamento: la lenta scomparsa del sistema capitalista e l’ aumento dei beni comuni nei quali il benessere economico si misura meno dall’ accumulo di capitali di mercato e più dall’aggregazione di capitale sociale. Il costante calo del PIL nei prossimi anni e decenni sara’ attribuibile in misura sempre crescente al passaggio ad un nuovo, vibrante paradigma economico che misura il valore in modi totalmente nuovi.
L’Unione Europea, le Nazioni Unite, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo (OCSE), e una serie di paesi industrializzati e in via di sviluppo hanno introdotto nuove metriche per la determinazione del progresso economico,
sottolineando indicatori di “qualità della vita” piuttosto che semplicemente
la quantità di produzione economica. Priorità sociali, tra cui il conseguimento dell’ educazione nella popolazione, la disponibilità di servizi di assistenza sanitaria, la mortalita’ infantile e l’aspettativa di vita, l’estensione della tutela ambientale e dello sviluppo sostenibile, la tutela dei diritti umani, il grado di
partecipazione democratica nella società, i livelli di volontariato, la quantità di
tempo libero disponibile ai cittadini, la percentuale della popolazione al di sotto del livello di povertà, e l’equa distribuzione della ricchezza, sono fra le numerose nuove categorie utilizzate dai governi per valutare il benessere economico generale della società. La quantita’ del PIL probabilmente avra’meno importanza
come indicatore della performance economica in accordo alla diminuzione dell’ economia di scambio di mercato nei prossimi decenni. Dalla metà del secolo, gli indici di qualità della vita sui beni comuni sono da considerarsi il banco di prova per misurare il benessere economico di ogni nazione.